QUELL’ORCO SENZA NOME CHE STRAZIÒ LAURA E PAOLO
Come sono gli occhi di un assassino? Forse sono finestre che si affacciano su un’anima buia e desolata, nella quale non sopravvive neppure il tenue bagliore consolatorio della pietà. Oppure sono come...
26 ottobre 2019
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Come sono gli occhi di un assassino? Forse sono finestre che si affacciano su un’anima buia e desolata, nella quale non sopravvive neppure il tenue bagliore consolatorio della pietà. Oppure sono come specchi indifferenti che respingono la luce della vita, nascondendo un arido deserto interiore. Quegli occhi i piccoli Laura e Paolo Fumu li hanno visti molto bene, quando erano già smarriti nel loro terrore. Ma non potranno mai descriverli, perché sono l’ultima cosa che hanno visto, prima di perdersi nella fredda notte senza stelle della morte.
Questa è la storia di due bambini che, in un pomeriggio di sole di 42 anni fa, incontrarono un assassino che rubò loro il respiro e una vita ancora tutta da immaginare. Laura aveva appena nove anni, Paolo solo sette. La loro è una storia tragica senza verità, senza risposte. Sì, perché dopo tutto questo tempo, ancora non è stato possibile dare un nome e un volto all’assassino. O agli assassini.
Qualcuno, in quei giorni di ottobre del 1977, evocò la parola “mostro”. Espressione eccessiva? Forse no. Perché, andando fino alla radice profonda della parola, e cioè alla rappresentazione di una figura che si “mostra” estranea all’ordine naturale, sicuramente l’omicidio di due bambini va al di là del confine dei principi minimi di umanità. Dove la crudeltà diventa abominio, dove l’assassino diventa un mostro.
Prima di tutto il teatro della tragedia: Sa Serra, allora frazione di Buddusò di neppure duecento anime. Un pugno di case in una zona di confine che non è più Gallura e non è ancora Barbagia. Un luogo dove perfino il modo di parlare sembra sospeso tra due mondi. Il villaggio è adagiato sul costone che delimita a sud una vallata aspra e luminosa, circondato da una rada boscaglia di sughere e olivastri e da macchioni di lentischio. Ci si conosce tutti a Sa Serra: si è parenti o si è amici. Mai un episodio di violenza nella memoria di questa piccola comunità, fino al 5 ottobre 1977.
‘‘
Qui la notte non chiudiamo
a chiave la porta
– disse la maestra della minuscola scuola elementare subito dopo la tragedia –. Qui non succede mai niente. Neppure un piccolo furto”.
Insomma, Sa Serra era un luogo remoto, sereno nella sua solitudine, dove i giorni si susseguivano sempre uguali a loro stessi. Come i grani di un rosario.
Nel 1977 Felice Fumu ha 46 anni e fa l’operaio forestale. È un uomo serio, quadrato. È stato consigliere comunale a Buddusò per la Democrazia cristiana e segretario di sezione del partito. La moglie, Maria Erre, di anni ne ha 35 ed è casalinga. Hanno due figli: Laura che frequenta la quarta elementare e Paolo che è in seconda. Lei è bruna e lui è castano. Sono due bambini bellissimi.
La mattina di mercoledì 5 ottobre è lucente e piena di sole, dopo alcuni giorni grigi di pioggia. L’aria è gonfia dell’odore intenso dell’erba e della terra bagnata. Laura e Paolo tornano casa da scuola. Chiedono alla mamma di uscire per cercare funghi. Per loro è un gioco. E poi quella campagna è amica, sicura. Non nasconde pericoli. Maria Erre sa che non si allontaneranno da casa e ovviamente dà il suo consenso, raccomandando loro di tornare dopo una ventina di minuti.
Racconterà qualche giorno dopo: “E come facevo a dirgli di no? Era una così bella giornata… Ho preso allora una busta e ci ho messo dentro un paio di banane dicendo loro: promettetemi di mangiare la frutta e soprattutto non allontanatevi”. I due bambini escono di casa di corsa, ridendo. Sono passate da poco le 13.
L’ultima persona a vedere Laura e Paolo vivi è una donna che abita alla periferia del villaggio. Si chiama Francesca Delogu. Chiede loro: “Bambini, dove state andando?”. “A cercare funghi” rispondono loro. “E vostra madre lo sa?” domanda ancora la donna. “Sì, certo” dicono di rimando Laura e Paolo. E corrono via.
C’è un misterioso filo che lega le madri ai propri figli. Come un’invisibile sintonia emotiva. Insomma, nelle madri esiste un istinto che le avverte se i loro bambini sono in pericolo, se sono in difficoltà. Quasi un presagio. Per questo, Maria Erre comincia a preoccuparsi mezz’ora dopo che Laura e Paolo sono usciti di casa. Non hanno mai disubbidito, non hanno mai ritardato di un minuto.
‘‘
Mi sentivo preoccupata.
Non so, avevo una specie
di presentimento – dirà poi –. Mi sono affacciata alla finestra e non li ho visti. Allora ho cominciato a chiamarli, ma niente. Niente, non rispondevano. Sono così uscita e ho cominciato a cercarli. Lo sanno tutti qui in paese che sono una madre apprensiva, ma quel pomeriggio, non so perché, sentivo che c’era qualcosa di brutto. C’era una paura concreta che alimentava la mia ansia”.
Maria esce per strada e comincia a chiedere a tutti se hanno visto i suoi bambini. Chiede che qualcuno la aiuti a cercarli. All’inizio riceve solo risposte rassicuranti: “Stai tranquilla, saranno qui intorno a cercare funghi”. Ma il tempo passa inesorabilmente e di Laura e Paolo non c’è traccia. Intorno alle 14 la preoccupazione diventa paura. È come un contagio: decine di persone cominciano allora a cercare i bambini nelle campagne intorno a Sa Serra. Maria Erre sente che è accaduto qualcosa ai suoi piccoli e nel suo cuore di mamma la paura si trasforma progressivamente in disperazione.
Alle 16 l’incubo diventa tragedia. Giovanni Antonio Fumu, lo zio dei bambini, trova il corpicino di Paolo. È sul letto del rio Olchetta, un fiumiciattolo che scorre ad appena 400 metri dal paese. La zona si chiama ‘Sa Pala ‘e Sole’. Ha il viso rivolto all'insù, una manina appoggiata sulla bocca. È ricoperto di pietre, alcune delle quali sulla testa. Lo zio lo afferra e, tenendolo stretto al petto, corre disperato verso casa. Spera che si possa fare qualcosa, che la luce possa ritornare in quegli occhi ormai vitrei. Non si accorge che il bambino non respira più. O meglio: non ci vuole credere.
Dopo mezz'ora trovano Laura. È poco lontano. Ad appena duecento metri dal punto in cui hanno rinvenuto il corpo di Paolo. Anche lei è sul letto del rio Olcheta. È bocconi, con il viso immerso nell’acqua, che pigramente agita il suo vestitino. Sulla testa ha un grosso masso. A fianco, la busta con le banane. Proprio in quel momento di orrore da Padru arrivano i carabinieri. Le regole, si sa, ignorano la pietà e il dolore: il corpo di Lauretta non può essere spostato, in attesa delle decisioni della magistratura. E la legge ha i suoi tempi. Che non sono tempi umani. Per questo il cadaverino della piccola Laura Fumu resterà per 22 ore lì, nel fiume, dove l’hanno trovata. Il pretore di Pattada, Giovanni Lissia, comunica infatti alla procura della Repubblica di Sassari il rinvenimento dei due corpi e il sostituto Piero Sechi ordina che la scena del crimine venga ‘cristallizzata’ fino al suo arrivo.
Lauretta sta così nell’acqua fino all’indomani. La vegliano quattro carabinieri in una notte senza luna. Il silenzio è ferito dal rantolo di un piccolo gruppo elettrogeno che illumina tristemente quel corpicino, accarezzato dall’acqua fredda e indifferente del fiume.
A Sa Serra si cerca di esorcizzare il fantasma del ‘mostro’ che vive nascosto nella piccola comunità. Ecco che così cominciano a circolare voci di un assassino venuto da lontano. “Il 4 agosto – dice una donna ai giornalisti – un uomo è stato segnalato a poca distanza dell’abitato del paese mentre cercava di attirare l’attenzione di alcuni bambini, tra i quali c’erano anche Laura e Paolo Fumu”.
Un episodio – si dice a Sa Serra – che aveva creato inquietudine e aveva portato addirittura all’intervento dei carabinieri.
‘‘
Quell’uomo l’ha visto
anche mio figlio
– dice ai giornalisti in quelle ore convulse il padre di un bambino di 8 anni, compagno di classe di Paolo –. Ha chiamato mio figlio, ma lui per fortuna è scappato”.
La verità è che, dietro queste voci che a Sa Serra crescono come una marea discreta, c’è la volontà, ma anche l’illusione, di liberarsi dalle catene di un sospetto atroce. O meglio, di un’accusa non detta. E cioè che il ‘mostro’ è lì, a Sa Serra, nascosto tra le persone che si vedono e si incontrano tutti i giorni.
Magari un parente, forse un amico. Un uomo nei cui occhi nessuno ha saputo vedere la morte.
Insomma, il villaggio cerca quasi inconsapevolmente di fuggire da un immotivato senso di colpa collettivo. Grida a tutti che l’orrore, l’abisso, non appartengono al suo spirito. Che il male non è nel suo sangue, ma arriva da fuori. Ma tutti, a Sa Serra, sanno che questa è una penosa bugia. E allora, come una nebbia sottile e velenosa, il sospetto e la paura si insinuano lentamente tra le case e le strade del piccolo villaggio. È la consapevolezza che il ‘mostro’ vive e si nasconde tra di loro.
Venerdì 7 ottobre il medico legale, il professor Giovanni Marras dell’Università di Sassari, accerta che la causa della morte dei piccoli è dovuta ad “asfissia per annegamento”. Laura e Paolo erano dunque ancora vivi quando l’assassino li aveva adagiati sul greto del torrente, coprendoli con alcune pietre. Dopo l’esame sul cadavere della bambina, Marras scrive: “Vi sono tracce di atti di libidine violenta”. Sui loro piccoli corpi ci sono i segni di una violenza disumana.
Sabato 8 ottobre le due piccole bare bianche, dove sono stati composti Laura e Paolo, escono dalla casa dei Fumu e vengono portate in un silenzio impossibile alla piccola chiesa di Sant’Elia, che si trova a un chilometro e mezzo dal paese, vicino al piccolo camposanto. Ci sono cinquemila persone a condividere il dolore di Felice Fumu e di Maria Erre. Anche il cielo piange. Il silenzioso corteo funebre è infatti accompagnato da una pioggia triste, leggera come un sospiro. La messa dell’addio è officiata dall’arcivescovo di Sassari monsignor Paolo Carta. “Il sangue degli innocenti grida al cospetto di Dio – tuona dall’altare l’alto prelato –. Come Dio ha maledetto Caino, così sia maledetto chi ha ucciso Laura e Paolo”.
Alla fine della funzione Maria Erre riesce a trovare la forza per dire: “Prego il Signore che il sangue di Laura e Paolo sia l'ultimo di bimbi innocenti versato in Sardegna”. Lei e il marito sono distrutti. Impietriti da un dolore straziate, condannati alla pena più atroce: sopravvivere ai propri figli.
Le indagini, intanto, non si fanno condizionare dalle suggestioni di un ‘mostro’ venuto da lontano e si concentrano sulla piccola comunità di Sa Serra. E così, partendo dal presupposto che solo una persona mentalmente malata può aver superato la soglia di ciò che è umanamente possibile, i sospetti si concentrano su un uomo di 42 anni, considerato ‘lo scemo del paese’. A Sa Serra tutti lo chiamano ‘Totoi’. Il 12 ottobre l’uomo viene fermato e poi arrestato. Ma dopo pochi giorni appare evidente che l’ipotesi non regge. Prima di tutto perché l’uomo ha dei limiti fisici tali da rendere difficile credere che possa aver commesso il duplice delitto.
Il paesino è stordito. Sembra impossibile che quell’uomo gracile, segnato profondamente da una meningite avuta da bambino, possa essere il ‘mostro’ che ha spento la vita dei fratellini Fumu. “Totoi non ha mai dato segno di impulsi violenti” dicono a Sa Serra. Per quell’uomo, visto da sempre nella piccola comunità con ironia e con pietà, non si accende così la scintilla dell’odio. Sottoposto a una forte pressione dagli investigatori, alla fine l’uomo dice:
‘‘
Non sono stato io,
ma ho visto tutto”.
E così fa il nome di un nipote che non ha ancora compiuto quattordici anni. E quindi non è neppure imputabile.
‘Totoi’ racconta che, nascosto dietro a una siepe, ha assistito all’omicidio dei due bambini. Sembrerebbe così trovare una risposta la domanda investigativa nata dal ritrovamento, in un cespuglio vicino al luogo dove è stata trovata la piccola Laura, di una maglietta insanguinata, taglia 33. La maglietta di un ragazzino, quindi.
Ma il giovane nega. «Non sono stato io» ripete come in un mantra ossessivo. Contro di lui, d’altra parte, c’è solo l’accusa di un uomo che non ha neppure la piena coscienza di sé. I giudici di Sassari alla fine hanno poco in mano. Sicuramente troppo poco per andare avanti. Perciò l’unica pista investigativa sulla morte di Laura e Paolo Fumu si esaurisce. La vita a Sa Serra riprende nel suo dimesso scorrere dei giorni. Ma la ferita del ricordo dei due bambini uccisi tarda a rimarginarsi. E poi resta l’ombra pesante dei sospetti. Sì, perché nel paesino si radica la consapevolezza che il ‘mostro’ è sempre lì, tra quella manciata di case. È uno di loro. Magari tutti i giorni lo incontrano, lo salutano e ci parlano, senza però riuscire a leggere nei suoi occhi la luce torbida dell’assassino.
Maria Erre coltiva negli anni il suo dolore infinito: tutti i giorni va nel minuscolo cimitero di Sa Serra a trovare i suoi due figli. E sulla loro tomba ci sono sempre fiori bianchi. Maria Erre e il marito Felice hanno comunque dentro di loro una forza straordinaria. Una forza che riesce a sconfiggere anche la morte. Dopo pochi anni, infatti, hanno altri due figli. Li chiamano come quelli che hanno perso, quelli che gli sono stati portati via da un ‘mostro’ senza nome: Laura e Paolo. Ma la loro scelta di vita non è una scelta di rassegnazione. Continuano infatti negli anni a chiedere giustizia, chiedono di sapere chi è l’assassino di Laura e di Paolo. Vogliono il nome di quel ‘mostro’ che, se è ancora vivo, è ancora lì, a Sa Serra.
Questa è la storia di due bambini che, in un pomeriggio di sole di 42 anni fa, incontrarono un assassino che rubò loro il respiro e una vita ancora tutta da immaginare. Laura aveva appena nove anni, Paolo solo sette. La loro è una storia tragica senza verità, senza risposte. Sì, perché dopo tutto questo tempo, ancora non è stato possibile dare un nome e un volto all’assassino. O agli assassini.
Qualcuno, in quei giorni di ottobre del 1977, evocò la parola “mostro”. Espressione eccessiva? Forse no. Perché, andando fino alla radice profonda della parola, e cioè alla rappresentazione di una figura che si “mostra” estranea all’ordine naturale, sicuramente l’omicidio di due bambini va al di là del confine dei principi minimi di umanità. Dove la crudeltà diventa abominio, dove l’assassino diventa un mostro.
Prima di tutto il teatro della tragedia: Sa Serra, allora frazione di Buddusò di neppure duecento anime. Un pugno di case in una zona di confine che non è più Gallura e non è ancora Barbagia. Un luogo dove perfino il modo di parlare sembra sospeso tra due mondi. Il villaggio è adagiato sul costone che delimita a sud una vallata aspra e luminosa, circondato da una rada boscaglia di sughere e olivastri e da macchioni di lentischio. Ci si conosce tutti a Sa Serra: si è parenti o si è amici. Mai un episodio di violenza nella memoria di questa piccola comunità, fino al 5 ottobre 1977.
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Qui la notte non chiudiamo
a chiave la porta
– disse la maestra della minuscola scuola elementare subito dopo la tragedia –. Qui non succede mai niente. Neppure un piccolo furto”.
Insomma, Sa Serra era un luogo remoto, sereno nella sua solitudine, dove i giorni si susseguivano sempre uguali a loro stessi. Come i grani di un rosario.
Nel 1977 Felice Fumu ha 46 anni e fa l’operaio forestale. È un uomo serio, quadrato. È stato consigliere comunale a Buddusò per la Democrazia cristiana e segretario di sezione del partito. La moglie, Maria Erre, di anni ne ha 35 ed è casalinga. Hanno due figli: Laura che frequenta la quarta elementare e Paolo che è in seconda. Lei è bruna e lui è castano. Sono due bambini bellissimi.
La mattina di mercoledì 5 ottobre è lucente e piena di sole, dopo alcuni giorni grigi di pioggia. L’aria è gonfia dell’odore intenso dell’erba e della terra bagnata. Laura e Paolo tornano casa da scuola. Chiedono alla mamma di uscire per cercare funghi. Per loro è un gioco. E poi quella campagna è amica, sicura. Non nasconde pericoli. Maria Erre sa che non si allontaneranno da casa e ovviamente dà il suo consenso, raccomandando loro di tornare dopo una ventina di minuti.
Racconterà qualche giorno dopo: “E come facevo a dirgli di no? Era una così bella giornata… Ho preso allora una busta e ci ho messo dentro un paio di banane dicendo loro: promettetemi di mangiare la frutta e soprattutto non allontanatevi”. I due bambini escono di casa di corsa, ridendo. Sono passate da poco le 13.
L’ultima persona a vedere Laura e Paolo vivi è una donna che abita alla periferia del villaggio. Si chiama Francesca Delogu. Chiede loro: “Bambini, dove state andando?”. “A cercare funghi” rispondono loro. “E vostra madre lo sa?” domanda ancora la donna. “Sì, certo” dicono di rimando Laura e Paolo. E corrono via.
C’è un misterioso filo che lega le madri ai propri figli. Come un’invisibile sintonia emotiva. Insomma, nelle madri esiste un istinto che le avverte se i loro bambini sono in pericolo, se sono in difficoltà. Quasi un presagio. Per questo, Maria Erre comincia a preoccuparsi mezz’ora dopo che Laura e Paolo sono usciti di casa. Non hanno mai disubbidito, non hanno mai ritardato di un minuto.
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Mi sentivo preoccupata.
Non so, avevo una specie
di presentimento – dirà poi –. Mi sono affacciata alla finestra e non li ho visti. Allora ho cominciato a chiamarli, ma niente. Niente, non rispondevano. Sono così uscita e ho cominciato a cercarli. Lo sanno tutti qui in paese che sono una madre apprensiva, ma quel pomeriggio, non so perché, sentivo che c’era qualcosa di brutto. C’era una paura concreta che alimentava la mia ansia”.
Maria esce per strada e comincia a chiedere a tutti se hanno visto i suoi bambini. Chiede che qualcuno la aiuti a cercarli. All’inizio riceve solo risposte rassicuranti: “Stai tranquilla, saranno qui intorno a cercare funghi”. Ma il tempo passa inesorabilmente e di Laura e Paolo non c’è traccia. Intorno alle 14 la preoccupazione diventa paura. È come un contagio: decine di persone cominciano allora a cercare i bambini nelle campagne intorno a Sa Serra. Maria Erre sente che è accaduto qualcosa ai suoi piccoli e nel suo cuore di mamma la paura si trasforma progressivamente in disperazione.
Alle 16 l’incubo diventa tragedia. Giovanni Antonio Fumu, lo zio dei bambini, trova il corpicino di Paolo. È sul letto del rio Olchetta, un fiumiciattolo che scorre ad appena 400 metri dal paese. La zona si chiama ‘Sa Pala ‘e Sole’. Ha il viso rivolto all'insù, una manina appoggiata sulla bocca. È ricoperto di pietre, alcune delle quali sulla testa. Lo zio lo afferra e, tenendolo stretto al petto, corre disperato verso casa. Spera che si possa fare qualcosa, che la luce possa ritornare in quegli occhi ormai vitrei. Non si accorge che il bambino non respira più. O meglio: non ci vuole credere.
Dopo mezz'ora trovano Laura. È poco lontano. Ad appena duecento metri dal punto in cui hanno rinvenuto il corpo di Paolo. Anche lei è sul letto del rio Olcheta. È bocconi, con il viso immerso nell’acqua, che pigramente agita il suo vestitino. Sulla testa ha un grosso masso. A fianco, la busta con le banane. Proprio in quel momento di orrore da Padru arrivano i carabinieri. Le regole, si sa, ignorano la pietà e il dolore: il corpo di Lauretta non può essere spostato, in attesa delle decisioni della magistratura. E la legge ha i suoi tempi. Che non sono tempi umani. Per questo il cadaverino della piccola Laura Fumu resterà per 22 ore lì, nel fiume, dove l’hanno trovata. Il pretore di Pattada, Giovanni Lissia, comunica infatti alla procura della Repubblica di Sassari il rinvenimento dei due corpi e il sostituto Piero Sechi ordina che la scena del crimine venga ‘cristallizzata’ fino al suo arrivo.
Lauretta sta così nell’acqua fino all’indomani. La vegliano quattro carabinieri in una notte senza luna. Il silenzio è ferito dal rantolo di un piccolo gruppo elettrogeno che illumina tristemente quel corpicino, accarezzato dall’acqua fredda e indifferente del fiume.
A Sa Serra si cerca di esorcizzare il fantasma del ‘mostro’ che vive nascosto nella piccola comunità. Ecco che così cominciano a circolare voci di un assassino venuto da lontano. “Il 4 agosto – dice una donna ai giornalisti – un uomo è stato segnalato a poca distanza dell’abitato del paese mentre cercava di attirare l’attenzione di alcuni bambini, tra i quali c’erano anche Laura e Paolo Fumu”.
Un episodio – si dice a Sa Serra – che aveva creato inquietudine e aveva portato addirittura all’intervento dei carabinieri.
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Quell’uomo l’ha visto
anche mio figlio
– dice ai giornalisti in quelle ore convulse il padre di un bambino di 8 anni, compagno di classe di Paolo –. Ha chiamato mio figlio, ma lui per fortuna è scappato”.
La verità è che, dietro queste voci che a Sa Serra crescono come una marea discreta, c’è la volontà, ma anche l’illusione, di liberarsi dalle catene di un sospetto atroce. O meglio, di un’accusa non detta. E cioè che il ‘mostro’ è lì, a Sa Serra, nascosto tra le persone che si vedono e si incontrano tutti i giorni.
Magari un parente, forse un amico. Un uomo nei cui occhi nessuno ha saputo vedere la morte.
Insomma, il villaggio cerca quasi inconsapevolmente di fuggire da un immotivato senso di colpa collettivo. Grida a tutti che l’orrore, l’abisso, non appartengono al suo spirito. Che il male non è nel suo sangue, ma arriva da fuori. Ma tutti, a Sa Serra, sanno che questa è una penosa bugia. E allora, come una nebbia sottile e velenosa, il sospetto e la paura si insinuano lentamente tra le case e le strade del piccolo villaggio. È la consapevolezza che il ‘mostro’ vive e si nasconde tra di loro.
Venerdì 7 ottobre il medico legale, il professor Giovanni Marras dell’Università di Sassari, accerta che la causa della morte dei piccoli è dovuta ad “asfissia per annegamento”. Laura e Paolo erano dunque ancora vivi quando l’assassino li aveva adagiati sul greto del torrente, coprendoli con alcune pietre. Dopo l’esame sul cadavere della bambina, Marras scrive: “Vi sono tracce di atti di libidine violenta”. Sui loro piccoli corpi ci sono i segni di una violenza disumana.
Sabato 8 ottobre le due piccole bare bianche, dove sono stati composti Laura e Paolo, escono dalla casa dei Fumu e vengono portate in un silenzio impossibile alla piccola chiesa di Sant’Elia, che si trova a un chilometro e mezzo dal paese, vicino al piccolo camposanto. Ci sono cinquemila persone a condividere il dolore di Felice Fumu e di Maria Erre. Anche il cielo piange. Il silenzioso corteo funebre è infatti accompagnato da una pioggia triste, leggera come un sospiro. La messa dell’addio è officiata dall’arcivescovo di Sassari monsignor Paolo Carta. “Il sangue degli innocenti grida al cospetto di Dio – tuona dall’altare l’alto prelato –. Come Dio ha maledetto Caino, così sia maledetto chi ha ucciso Laura e Paolo”.
Alla fine della funzione Maria Erre riesce a trovare la forza per dire: “Prego il Signore che il sangue di Laura e Paolo sia l'ultimo di bimbi innocenti versato in Sardegna”. Lei e il marito sono distrutti. Impietriti da un dolore straziate, condannati alla pena più atroce: sopravvivere ai propri figli.
Le indagini, intanto, non si fanno condizionare dalle suggestioni di un ‘mostro’ venuto da lontano e si concentrano sulla piccola comunità di Sa Serra. E così, partendo dal presupposto che solo una persona mentalmente malata può aver superato la soglia di ciò che è umanamente possibile, i sospetti si concentrano su un uomo di 42 anni, considerato ‘lo scemo del paese’. A Sa Serra tutti lo chiamano ‘Totoi’. Il 12 ottobre l’uomo viene fermato e poi arrestato. Ma dopo pochi giorni appare evidente che l’ipotesi non regge. Prima di tutto perché l’uomo ha dei limiti fisici tali da rendere difficile credere che possa aver commesso il duplice delitto.
Il paesino è stordito. Sembra impossibile che quell’uomo gracile, segnato profondamente da una meningite avuta da bambino, possa essere il ‘mostro’ che ha spento la vita dei fratellini Fumu. “Totoi non ha mai dato segno di impulsi violenti” dicono a Sa Serra. Per quell’uomo, visto da sempre nella piccola comunità con ironia e con pietà, non si accende così la scintilla dell’odio. Sottoposto a una forte pressione dagli investigatori, alla fine l’uomo dice:
‘‘
Non sono stato io,
ma ho visto tutto”.
E così fa il nome di un nipote che non ha ancora compiuto quattordici anni. E quindi non è neppure imputabile.
‘Totoi’ racconta che, nascosto dietro a una siepe, ha assistito all’omicidio dei due bambini. Sembrerebbe così trovare una risposta la domanda investigativa nata dal ritrovamento, in un cespuglio vicino al luogo dove è stata trovata la piccola Laura, di una maglietta insanguinata, taglia 33. La maglietta di un ragazzino, quindi.
Ma il giovane nega. «Non sono stato io» ripete come in un mantra ossessivo. Contro di lui, d’altra parte, c’è solo l’accusa di un uomo che non ha neppure la piena coscienza di sé. I giudici di Sassari alla fine hanno poco in mano. Sicuramente troppo poco per andare avanti. Perciò l’unica pista investigativa sulla morte di Laura e Paolo Fumu si esaurisce. La vita a Sa Serra riprende nel suo dimesso scorrere dei giorni. Ma la ferita del ricordo dei due bambini uccisi tarda a rimarginarsi. E poi resta l’ombra pesante dei sospetti. Sì, perché nel paesino si radica la consapevolezza che il ‘mostro’ è sempre lì, tra quella manciata di case. È uno di loro. Magari tutti i giorni lo incontrano, lo salutano e ci parlano, senza però riuscire a leggere nei suoi occhi la luce torbida dell’assassino.
Maria Erre coltiva negli anni il suo dolore infinito: tutti i giorni va nel minuscolo cimitero di Sa Serra a trovare i suoi due figli. E sulla loro tomba ci sono sempre fiori bianchi. Maria Erre e il marito Felice hanno comunque dentro di loro una forza straordinaria. Una forza che riesce a sconfiggere anche la morte. Dopo pochi anni, infatti, hanno altri due figli. Li chiamano come quelli che hanno perso, quelli che gli sono stati portati via da un ‘mostro’ senza nome: Laura e Paolo. Ma la loro scelta di vita non è una scelta di rassegnazione. Continuano infatti negli anni a chiedere giustizia, chiedono di sapere chi è l’assassino di Laura e di Paolo. Vogliono il nome di quel ‘mostro’ che, se è ancora vivo, è ancora lì, a Sa Serra.