La Nuova Sardegna

Dai fiumi sardi sparisce la trota nuragica

Giacomo Mameli
Dai fiumi sardi sparisce la trota nuragica

A Ballao diversi sindaci e alcune associazioni si sono incontrati per tastare il polso ai corsi d’acqua isolani. E le notizie non sono buone

24 novembre 2019
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Nella ballata della “Guerra di Piero” Fabrizio De Andrè invocava la discesa dei “lucci argentati”. Pesci che non scorrevano nei torrenti sardi. Ora il luccio migratore si è accasato sotto Limbara e Gennargentu. «È l’ultimo immesso nei nostri fiumi, è un grande predatore, divora tutto ciò che gli si para davanti», dice Andrea Sabatini, 53 anni, docente di Anatomia comparata a Scienze naturali dell’università di Cagliari. Emerge un dato negativo: «Dalle otto specie di pesci originari in Sardegna siamo passati a 24 immesse in fiumi sia per la pesca sportiva, quindi con un disegno preciso, oppure come pesce foraggio, esca viva. Il danno creato è enorme».

Sovranismo ittico. E così quella che, con vanto al limite del sovranismo ittico, si poteva battezzare trota sarda (salmo cettii, dal nome scientifico del primo scopritore), potremmo dire che non esiste più. «La trota sarda si è salvata solo dove non sono state fatte immissioni di specie alloctone, forestiere. Zona fortunata è quella del Coghinas dove c’è il rilascio costante di acqua dalle dighe. Gli altri fiumi, Tirso e Flumendosa, Temo e Cixerri, interrotti dagli sbarramenti, hanno perso la naturale continuità fluviale». Ancora Sabatini: «Dal 1940 a oggi, la distribuzione delle trote di tutti i generi si è ridotta in Sardegna del 78 per cento, quelle sarde variano tra il 4 e il 5. Stesse proporzioni per le anguille: sempre dal 1940 la perdita è stata del 75 per cento. Tutto si blocca alle dighe. La produzione è limitata alla zona alta del Coghinas, sotto Fonni, al sud tra Santa Gilla, Muravera, Villaputzu, Lotzorai e Santa Giusta e poche altre zone. Prima si pescava per cinque mesi l’anno, da ottobre e febbraio. Ora fra marzo e aprile».

Il convegno. Temi dei quali (per iniziativa di un ex consigliere provinciale, Chicco Frongia, farmacista) si è parlato nei giorni scorsi a Ballao (sindaco Severino Cubeddu) con i colleghi di Armungia (Donatella Dessì), Escalaplano (Marco Lampis), San Nicolò Gerrei (Stefano Soro), con l’ex sindaco di Seulo Giuseppe Carta e con le associazioni che vorrebbero valorizzare il Flumendosa. La partecipazione popolare è stata pressoché nulla ma l’argomento - pur in mezzo a interventi verbosi - era di estrema attualità in un momento in cui i fiumi - per nulla controllati e ripuliti - esondano in Italia, seminando lutti, come è successo in Sardegna negli anni scorsi tra Olbia, Capoterra, Oliena e Torpè.

Negli anni Cinquanta del secolo scorso c’erano state le esondazioni del Flumendosa con drammi tra Villaputzu e San Vito, il crollo del ponte sul rio Pardu sotto Gairo e Osini e l’abbandono (ottobre 1951) di quei centri abitati. Soprattutto è stato ricordato il periodo in cui si volevano costruire dighe sotto ogni campanile e rivolta fu, municipio occupato a Villasalto, il comitato spontaneo No Dighe anticipava i più recenti No Tav, No Tap e via innalzando cartelli del No.

La battaglia contro le lobbies degli invasi fu vinta in Sardegna dove, su 42 dighe, solo due erano collaudate. Ma la valorizzazione dei corsi d’acqua non c’è stata. I più interessati al dibattito di Ballao hanno nominato un parco virtuoso, quello di Tepilora che a giugno 2017 ha ottenuto dall’Unesco il riconoscimento di “Riserva della biosfera”. Il sindaco di Bitti, Giuseppe Ciccolini: «Abbiamo ottenuto 5 milioni di euro per investimenti, altri fondi sono in arrivo da distribuire nel territorio. Tepilora sta dando un po’ di luce in una situazione grigia». L’ex sindaco di Seulo ha invitato ad «avere maggior coscienza del valore dei fiumi e dell’ambiente. Il Flumendosa e altri corsi d’acqua non creano reddito perché non abbiamo competenze giuste. Pur avendo località da Eden: cito la grande piscina di Sa Stiddiosa».

E oggi? Il biologo sassarese Giuseppe Sotgiu segnala una «situazione complessa e controversa. Siamo stati noi a creare il danno immettendo la Trota Fario. Si riproduce e dà ibridi molto fertili che poi soppiantano le altre specie. Sono arrivati il pesce gatto e le gambusie, pesciolini sudamericani. Occorre ripensare gli interventi ittici dei corsi di acqua dolce». È Sabatini a fare il punto. In quanti fiumi sardi si possono pescare trote e anguille? «Potenzialmente in tutti, nella realtà le trote si trovano, con densità diverse in conseguenza della qualità dell’habitat e della pressione di prelievo, nei tratti montani, le anguille nei tratti a valle delle dighe e solo in rari casi possono superare queste barriere: la diga Santa Lucia su Girasole e le dighe sul Coghinas dove alcuni anni fa sono state realizzate scale di risalita che funzionano in modo non continuativo anche se ancora non abbiamo segnali dell’espansione nei fiumi a monte».

Divieto di pesca. In quali corsi d’acqua ci sono trote pure, trote sarde doc? «Diciamo intanto che il divieto di pesca della trota sarda è di difficile applicazione in quanto possono essere distinte certamente solo su base molecolare (analisi genetiche). Da quest’anno il divieto è stato imposto nelle aree in cui abbiamo certificato la presenza di popolazioni pure: sono il rio Piras (Gonnosfanadiga), Rio Furittu (Villasalto) e rio Flumineddu del bacino del Cedrino (al confine tra Orgosolo e Talana-Villagrande -Urzulei) a cui si aggiunge il rio Camboni e affluenti (Monte Arcosu nel Comune di Siliqua)». Se nei fiumi sotto le dighe ci fosse più acqua ci sarebbe più vita animale? «Sicuramente. Le dighe - certo necessarie per gli usi civili e agricoli - limitano la libera migrazione dei pesci (perdita della continuità fluviale), riducono le portate con conseguente riduzione di habitat a valle della diga (interi tratti vanno sistematicamente in secca) e con meno acqua alla foce che spesso rimane chiusa per buona parte dell’anno, impedendo il reclutamento delle anguille con la risalita delle ceche dal mare». Quanti pesci si pescavano cinquanta, cento anni fa? «Non si può dare una risposta. Tradizionalmente pescavano poche persone, da questa attività mantenevano la famiglia. Oggi queste figure professionali sono presenti solo nelle foci e nelle lagune costiere. Per il resto l’attività di prelievo è a carico della pesca sportiva e, in taluni casi, con sistemi di prelievo illegali di bracconaggio. Questi sono i più dannosi: usando la corrente elettrica piuttosto che la varecchina, gli adulti uccidono contemporaneamente le forme giovanili e non solo della specie che si vuole pescare (anguille e/o trote)».

Pesca pericolosa. Non succede da oggi. Il primo a segnalare la presenza della trota nei corsi d’acqua isolani è stato un tedesco, l’abate Francesco Cetti, nato nel 1726 a Mannheim da genitori di Como. Nel 1765, dopo aver insegnato scienze umanistiche a Bormio e in altre città europee, era stato il ministro Giovanni Battista Lorenzo Bogino a inviarlo in Sardegna. Ottenne la cattedra di matematica all’università di Sassari dove morì nel 1778 dopo aver scritto il libro “Storia naturale della Sardegna”. La trota analizzata dal Cetti era «sicuramente autoctona», nuragica, e così poteva fregiarsi del marchio Quattro Mori sulle branchie.

Studiò le trote sarde anche un altro piemontese, Pio Pomini (1915-1941), il primo a creare un allevamento sperimentale nell’isola. Interruppe gli studi perché ucciso nella guerra in Albania. Voi ricercatori di che cosa avete bisogno? «A livello regionale siamo riusciti a creare un tavolo tecnico per definire nuove norme e politiche di gestione alla luce dei risultati della carta ittica realizzata in collaborazione con l’assessorato alla Difesa dell’ambiente. La tutela dei fiumi e della fauna ittica è legata a fattori culturali. Le pratiche in atto (bracconaggio, uso di veleni, rilascio di rifiuti di ogni tipo) si fanno semplicemente perché si è sempre fatto così. Da piccolo le cose da buttare si portavano al fiume, ma erano deteriorabili, oggi non è più così. La tutela ambientale si basa su una crescita culturale su cui è necessario lavorare molto».

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