La Nuova Sardegna

Un rocker sardo oltre il Muro: Salvatore Garau e la favolosa tournée degli Stormy Six a Berlino est

di Salvatore Garau
Salvatore Garau alla batteria durante un concerto degli Stormy Six a Berlino est
Salvatore Garau alla batteria durante un concerto degli Stormy Six a Berlino est

Da ragazzo era il batterista della band, oggi è un affermato artista visivo. Il suo racconto: "Laggiù nel 1980 eravamo famosi come i Beatles". E anche ricchi, con tanti soldi da spendere che all'Ovest erano carta straccia. Amori da rotocalco e disillusioni politiche

26 novembre 2019
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Salvatore Garau è un affermato artista a livello internazionale, ha esposto alla Biennale di Venezia e nelle più importanti rassegne. A Santa Giusta (dove è nato nel 1953) si staglia la sua scultura “L’anguilla di Marte”. Ma Garau non è solo un artista visivo, nel suo passato una carriera come batterista degli Stormy Six, band del rock impegnato degli anni ’60, ’ 70 e ’80. L’anniversario della caduta del Muro di Berlino gli ha fatto tornare in mente l’esperienza di una tournée oltre cortina che ha voluto raccontare ai lettori de “La mia Isola”.

1980. Per il secondo anno siamo invitati a Berlino Est al Festival des Politischen Liedes. Prima di attraversare il muro teniamo un concerto al Quartier Latin a Berlino Ovest; era stato un cinema frequentato dai gerarchi nazisti dove si proiettavano i film di Merlene Dietrich. Grande accoglienza, stavolta più del solito, forse anche grazie al premio appena ricevuto in Germania Ovest per Macchina Maccheronica, quale miglior disco rock Europeo (secondo premio ai Police! Per noi è questa la notizia). Caricati gli strumenti nel camion, alle due siamo davanti al Checkpoint Charlie.

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Lunga attesa ascoltando Brahms. Febbraio freddissimo, Ci permettiamo di urinare davanti al muro (imboscati dal camion) su un metro di neve. Finalmente i militari controllano i nostri documenti. Con la faccia sospettosa buttano dentro il furgone un fascio di luce. Ci siamo, adesso ci schedano, pensiamo. É un attimo: “Stormy Six!” grida uno di loro e subito cambiano espressione chiedendoci gli autografi. Ancora non capiamo, ma è solo l’inizio. A darci il benvenuto nell’atrio dell’albergo in Alexander Platz, (4 di notte!) sei ragazze in divisa da hostess dietro una tavola imbandita con torte e bevande.

È chiaro, qualcosa dall’anno precedente è cambiato. Siamo diventati famosi, vere rock star! Durante l’anno i tedeschi avevano trasmesso un’infinità di volte, anche in prima serata, i nostri concerti registrati l’edizione precedente. Nell’Est non acquistavano certo format o filmati dall’estero; a quanto pare i nostri concerti avevano grande successo di audience, per cui, oltre il muro, la nostra popolarità era diventata pari a quella dei Beatles.

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Ne abbiamo conferma già la mattina successiva uscendo dall’albergo: gruppi di giovani ci aspettano festanti. E al primo dei cinque concerti, bastava vedere la fila interminabile (composta e al freddo) davanti al teatro. La fame di nuova musica oltre il muro era indescrivibile. Ancora non sappiamo di essere anche diventati ricchi per dieci giorni. Infatti, oltre alla diaria giornaliera che ciascuno di noi percepisce e che corrisponde allo stipendio mensile di un professore, abbiamo ricevuto le royalties del disco che lo stato ha pubblicato con una scelta di nostri brani: dal titolo “Die Alternative”.

Insomma, abbiamo a testa una montagna di soldi che avremmo dovuto spendere in quei dieci giorni; oltrepassato il muro, quei marchi, avrebbero avuto lo stesso valore dei soldi del Monopoli. Nei giorni liberi seguiamo i concerti degli altri gruppi, partecipiamo a tavole rotonde sulla canzone politica. Per noi la canzone politica è intesa come ricerca e sperimentazione di nuovi linguaggi. Fiori, Fabbri e Martini la fanno da padroni. I giovani sono fortemente interessati al nostro pensiero “alternativo”.

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Berlino Est è davvero triste. Quattro corsie per lato con pochissime auto dal design ugualmente triste. Capisci che quella è una panetteria perché è esposto un pane raffermo e quell’altro un negozio di strumenti musicali per via di un violino in vetrina. Il muro si respira nei polmoni, nel cuore. Incombe su tutto. Il muro è il padrone. Ma noi dobbiamo spendere il nostro capitale. Pino Martini acquista un violoncello e duecento dischi, Franco Fabbri un pianoforte. In un negozio di belle arti io faccio una enorme spesa, ma è ancora ben poca cosa rispetto dalle mie possibilità. Faccio chiudere il negozio e imballare tutto; “Sì, l’intero negozio”, dico, alle commesse attonite. Farò spedire gli scatoloni per posta e per anni avrei regalato, pastelli, chine e colori a olio.

Ci concediamo i migliori ristoranti. Ma in uno di questi, frequentato dagli ambasciatori, non essendo credibili a causa del nostro aspetto da rochettari, il maìtre ci fa capire che non possiamo sederci a quei tavoli. Uno di noi tira fuori un mazzo di marchi tale che il maìtre ci accompagna al tavolo migliore. In quei 10 giorni qualche sbruffonata ce la siamo concessa, via!

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Dopo pochi giorni nasce una love story tra me e una cantante di Lipsia tra le più famose della Germania dell’Est. I giornali del partito titolano: “Love story tra la nostra Elke e il batterista degli Stormy Six”. Da quel momento siamo costretti a lasciare l’albergo separati, utilizzando diverse uscite. Sapevo bene che quella dolcissima storia il muro l’avrebbe stroncata. Mi coglie una tristezza infinita. Per strada capisco cosa si prova ad essere davvero famosi. Sempre gli sguardi addosso, circondati da giovani che hanno voglia di avvicinarsi e parlarti. In loro avverto un orgoglio e una sensibilità speciale.

Nei loro sguardi, però, c’è sempre un fondo di tristezza, di rassegnazione che mi commuove. Ogni gruppo dispone di una traduttrice personale, a noi italiani ne affibbiano tre, forse a causa della nomea di essere un po’ troppo “distratti”. Non è facile, infatti, farci rispettare il dettagliato calendario programmato. La notte dopo i concerti, ci si ritrova alla Haus der Jungen Talente a bere e far tardi. Chissà se una delle nostra traduttrici non sia stata anche una spia. Non credo, ma il dubbio era lecito.

Pensare che il nostro comunismo non aveva niente a che fare con il loro. Noi avevamo Berlinguer, loro il muro. Noi la libertà, loro un muro. L’ultimo giorno andiamo in giro a regalare ai ragazzi per strada tutti i marchi che non avevamo avuto modo di spendere. Attraversato il Checkpoint e lasciato Berlino Est entriamo di nuovo nelle luci e nella vita dell’Ovest. Lasciavamo alle spalle fama e “ricchezza” (e l’orgoglio e la voglia di libertà di un popolo) tornando a essere gli Stormy Six di sempre. Non immaginiamo certo che, dopo nove anni, il muro sarebbe caduto e che altri governi, in seguito, sarebbero stati pronti a costruirne di nuovi.

Gli Stormy Six, nati nel 1965, l’ultimo live è nel 1993, sono stati tra i pionieri del beat italiano. La loro originalità è stata fondere la canzone politica tingendola di venature country e, in linea con tempi, di psichedelia, arrivando negli anni ’70 anche al jazz e al teatro. Nel 1967 sono la spalla dei Rolling Stones per la loro prima tournée italiana. Da quel momento la band partecipa a vari eventi alternativi ma anche a festival più commerciali, dove però i testi delle loro canzoni vengono censurati. Pionieri anche della musica indipendente aderiscono alla cooperativa L’Orchestra. Nel 1974 dedicano l’lp “La fabbrica” alla Resistenza.

 

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