La Nuova Sardegna

Fiabe di Sardegna, imparare l’arte di raccontare ascoltando sos contos antichi

Luca Urgu
Fiabe di Sardegna, imparare l’arte di raccontare ascoltando sos contos antichi

Giovanni Carroni ricorda la lezione che gli è servita per diventare attore e regista. «Maria Pettèna e Sa Sùrbile, le paure della mia infanzia per capire il mondo»

12 aprile 2020
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Con le parole ha iniziato a convivere presto. Ne avvertiva magia e potenzialità. Non sono mai state un corpo estraneo. Ma uno strumento fondamentale della narrazione e delle sue varie anime. Da quella gioiosa e ironica a quella cupa e tragica. Le parole che poi diventano frasi, rime che hanno musica, anzi la devono avere. Fanno correre una storia e le danno le giuste pause. Per funzionare le storie devono dunque avere il ritmo giusto. E, infatti non tutti le sanno raccontare, così come non tutti hanno avuto la fortuna di ascoltare e perdersi tra quelle strade della fantasia che agli occhi dei più piccoli appaiono davvero reali. Ecco, la forza delle storie, quelle che funzionano, che ci fanno sperare e temere: come le "Fiabe di Sardegna" in edicola dalla prossima settimana con il nostro giornale. E che comunque se apprese durante l'infanzia ci accompagnano per tutta la vita. Giovanni Carroni, regista e attore, nuorese, a pane e contos c'è cresciuto. Un patrimonio che è sicuramente servito per il suo percorso mai banale e sempre mirato a rievocare dalla cultura popolare insegnamenti e identità.

«I racconti, sos contos, sas paristorias, comiciano fin dalla culla: con le ninne nanne, chin su "banzicare" (cullare) sa creatura in su laccheddu (culla) o sulle ginocchia della mamma, del babbo o dei nonni. Questa narrazione della tradizione popolare, rimandava spesso alla realtà, in forma poetica e creativa. Una delle più frequenti, delle quali io ho goduto da appena nato, cantilena infinita pacata e rilassante, era questa: Coro, anninnò, anninnò/ si chers bennere ajò / a sa binza a binnenare /tottus si cheren cojare... E così via, a seguire all'infinito, una lunghissima e bellissima litania. Oppure ti cullavano con altri ritmi e melodie. Ti banzicaban chin sas battorinas: In Santu Predu an pesau unu ballu/a sonos de chitarra e de violinu/ sos prides non juchen collarinu/ ca lis at fattu in trucu unu callu/In santu predu an pesau unu ballu/ Pisedda lassa su jocu/ si jocas mira chin chie/ in d'unu monte de nie / cheres azzender su focu/ Sos de Orune mala zente / mezus sun sos de Nugòro /in Santa Maria issoro / b'ana presu unu molente /Orune postu in artura, /fachet bistas a mare /e non si podet campare /si no est de petta 'e fura. Queste sono le prime sonorità che mi hanno attraversato le carni e lo spirito e sono rimaste impresse dentro. Poi ci sono, subito dopo, gli esseri fantastici orrifici: Maria Pettena, detta Sa mama 'e su sole, S'Erchitu, su Boe Muliache, sa Surbile, su dimoniu, questi "mostri" erano parte di un bagaglio pedagogico popolare, fatto in casa. Una vera e propria drammatizzazione dei vari problemi e pericoli legati al mondo dell'infanzia. Una messa in scena narrativa dove c'è la personificazione della natura. I personaggi fantastici come maestri di vita», rievoca Carroni.

Per l'attore e regista Sos contos fanno parte di quel metodo educativo, di quella «scuola impropria» legata alla comunità tanto cara all'intellettuale bittese Michelangelo Pira. «In sos contos legati ai bambini c'è quindi un'interpretazione fantastica della realtà. E tutto questo bagaglio simbolico agisce nella vita del bambino come un' insieme di certezze indiscusse e indiscutibili, in modo quasi automatico. Così come lo è stata per secoli la credulità popolare per gli adulti: quell'enorme patrimonio di narrazione fantastica legata al mondo delle superstizioni, credenze, medicina popolare - rimarca -. A dire il vero la paura di Maria Petténa, femina leza, bezza, ispilurzìa, chi chircabat sos pizzineddos pro si che los manicare, l'ho superata abbastanza presto, da quando a 5/6 anni scappavo al fiume Cedrino con i miei cuginetti, a cama 'e sole, subito dopo pranzo, nelle assolate giornate estive, a nuotare nel fiume -racconta Giovanni -. Molto di più ho sofferto chin Sa Sùrbile, che nei primi anni dell'infanzia spesso mi ha ossessionato visitando i miei sogni, per succhiarmi il sangue addentandomi il braccio. Uomini e donne come biblioteche viventi, depositari di un sapere immenso. Un ricordo nitido mi è rimasto anche dei racconti sulla grande guerra di mio nonno Salvatore: reduce di quell'immensa tragedia. Non raccontava mai di assalti, di bombardamenti di carneficine e macello. Tanto meno di eroismi. Anche se alcuni erano celati nella narrazione. Erano per lo più racconti sulla fame e il freddo. Rischiar la vita per un gavetta di prugne raccolta proprio a ridosso della trincea nemica, con i cecchini pronti a bucarti la testa. Un'azione pericolosissima per un pacchetto di sigari e degli scarponi nuovi, con la suola di cartone. Racconti per lo più sulla fame, anche quella dei nemici, "omines che a nois mattessi" - ricorda Carroni sillabando le frasi del nonno -. Cando amus brincau su Piave amus accattau sos austriacos, in sas barraccas issoro, chi dae sa gana si fini cochende sas solas de sos iscarpones» - ("Quando abbiamo saltato il Piave abbiamo trovato gli austriaci, nelle loro baracche, che si stavano cucinando le suole degli scarponi"). Ca bi fit cussu Francesco Baracca, chi che lis ghettabat a terra sos aereos chi los deppiana rifornire de recattu». Citando il grande asso dell'aviazione.

«Altre volte parlava do solo con un interlocutore invisibile: stava seduto in un angolo della cucina, apparecchiava il tavolo con un fiasco di vino e due bicchieri, uno per lui e uno altro per il commilitone assente, un certo Carzedda di Siniscola, anche lui scampato al macello, al quale ogni tanto mi faceva scrivere e inviare una cartolina: "Noi stiamo bene, così spero di voi tutti. Un saluto fraterno vostro Bobore". Oppure: "Mi auguro che la presente vi trovi in buona salute. Noi stiamo tutti bene. Un caro saluto. Bobore"». Storie maschili e femminili. «Specialmente dalle donne, venivano invece i racconti sui morti. Ambientati in genere in camposanto, in chiesa, all'alba o all'imbrunire o alla mezzanotte in punto. Spesso di persone affette da sonnambulismo, che scambiavano la notte con il giorno, e uscivano in ore improbabili e sconsigliate, ritrovandosi puntualmente dentro le chiese, a mezzanotte, piene di gente sconosciuta, generalmente di morti convenuti per ascoltare la messa, officiata da un sacerdote senza testa. Altri che si ritrovano imprigionati in camposanto, dopo la chiusura serale, tremanti di paura davanti ad anime sconosciute che chiedono nuove della famiglia e della comunità", specifica su queste storie inquietanti. Giovanni Carroni si sofferma poi sui ritmi della narrazione popolare. «Qui c'è un ritmo preciso, che arricchisce il racconto. Senza il ritmo giusto il racconto incespica, la parola inciampa e cade, il significato non torna. È il significante innanzitutto, la sonorità verbale, che per prima deve funzionare, come nella poesia orale. "Sa paragula deppet roddulare",- dice -. La narrazione è legata in qualche modo alla poesia orale, deve avere un suo stile, un'intonazione adatta. Questo stile epico, delle piccole e semplici storie, è rimasto in qualche modo dentro di me, ed è stato una guida anche per le mie messe in scene degli spettacoli teatrali, specie nei monologhi. Mio nonno e mia nonna parlavano e raccontavano con un ritmo preciso. Non era mai un ritmo veloce, era spesso lento, con le pause giuste, con cambi di intonazione. Il discorso era sempre pieno di energia, di stupore, di sorpresa».

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