La Nuova Sardegna

Dialogo con Jacopo Incani 

L’antidivo della musica adorato dal pubblico

L’antidivo della musica adorato dal pubblico

di MARCELLO FOIS 

24 maggio 2020
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Raccontare Jacopo Incani, in arte Iosonouncane, vuol dire raccontare una delle esperienze musicali più rappresentative degli ultimi anni. Questo giovane cantautore di Buggerru è infatti un esempio di come si possa diventare influenti nel proprio campo senza apparire, direi quasi senza fare nient’altro che scrivere pezzi eccezionali e cantarli. In un mondo in cui spesso si confonde la qualità, in questo caso la capacità di comporre, con la capacità di promuoversi, Iosonouncane è l’immagine dell’anti-immagine. Il che lo colloca a metà tra un sardo tradizionale e un sardo del terzo millennio, tra un troglodita di lusso e un ologramma giapponese. I suoi più che ammiratori sono adoratori. Ho assistito a suoi concerti in teatri stracolmi di un pubblico davvero multiforme e multigenerazionale. Candidato alla Targa Tenco per l’album “Die” nel 2015, è ritenuto dalla critica nel ristrettissimo gruppo di autori che esercitino una reale influenza nel sound contemporaneo.

Dunque la prima domanda “sorge spontanea”. Si rende conto che lei, senza muovere un dito riesce a ottenere assai di più di eserciti di autori che si sbracciano come folli? È una capacità genetica o la proverbiale miscela di genio e pigrizia che, di tanto in tanto, bacia qualche fortunato essere umano?

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Non credo sinceramente di avere

capacità innate. Non sono stato

un bimbo prodigio, non ho ricevuto il miracolo di una voce naturalmente intonata o una manualità istintiva sullo strumento. Tutto quel che oggi faccio e so fare ha richiesto tempo, fatica, esercizio, dedizione. Oggi il mio lavoro gode di attenzione e credibilità e credo sia semplicemente il risultato di scelte fatte lungo un decennio. Mi limito a seguire due personali comandamenti: non faccio nulla che possa mettermi in imbarazzo (ho rifiutato alla luce di ciò ospitate televisive, interviste, comparsate di vario tipo) e parlo solo quando ho qualcosa da dire con il mio lavoro. In questo nostro mestiere, e in questa nostra epoca, il rischio di trasformarsi in opinionisti o simpaticoni chiamati ad allietare i presenti è altissimo. Per semplice inclinazione caratteriale mi tengo alla larga da tutto ciò, investendo tempo ed energie in quel che mi piace fare e ho scelto di fare. Ma servono i risultati a tenere in piedi tutto, e io mi concentro solo su questo, sulla musica e le parole che scrivo, i dischi che produco”.

Ognuno dei suoi dischi è il risultato di un lavoro, a tratti maniacale. Lei stesso ha affermato più volte che proprio non riesce a “concludere” un progetto, ma deve sentirsi libero di intervenire continuamente. Quanta parte ha l’istinto in questa operazione? Come lavora?

“L’istinto ha certamente una parte fondamentale nel mio metodo di lavoro: per costruire un disco parto sempre da una visione globale, da una narrazione (qualsiasi cosa si voglia intendere con questo termine) che ne abbracci e raccolga ogni singola vita interna. Questa visione d'insieme mi si mostra sempre in maniera fulminea: posso cioè percepire l'opera in tutta la sua compiutezza ben prima che l'opera stessa esista. Possono bastarmi una parola, un suono, l’idea di una struttura, una suggestione lessicale, una maniera per me nuova di pensare la voce. Il lungo lavoro che ne consegue, che può durare anni, ha come obiettivo trainante la realizzazione di quanto immaginato, percepito, intuito. Ovviamente nel corso degli anni si cambia, si incontra nuova musica, nuove persone, nuove suggestioni, e si impara tanto anche da un punto di vista prettamente tecnico. Sono quindi necessarie grande pazienza e concentrazione per far sì che quella visione scatenante non si perda fra le maglie del lunghissimo lavoro quotidiano. Finora ci sono sempre riuscito e di questo ancora mi stupisco”.

Lei viene da Buggerru e ha con la Sardegna un rapporto costante. Eppure ad ascoltarla è riuscito nel miracolo di non far sembrare “etnico o antropologico” il valore aggiunto che la sua sardità può determinare. Che tipo di sardo si sente esattamente?

“Sono un sardo che ha vissuto diciannove anni in Sardegna e che da quasi altrettanti vive a Bologna. Sono un sardo cresciuto guardando il mare, ascoltando principalmente musica anglofona e leggendo narrativa italiana, francese, americana, russa, tedesca. Mi sento a casa in Sardegna, mi sento a casa a Bologna. E mi sono sentito a casa a Milano, Palermo, Napoli, Parigi, in Marocco, a Berlino. Mi sento a casa laddove ritrovo qualcosa di me negli altri e viceversa, e questo è possibile ovunque. Sono infine un musicista cresciuto a Buggerru, isola nell’isola. La mia infanzia è stata abitata da nomi, suoni e luoghi in un qualche modo esotici: i cognomi quasi mai sardi dei paesani e i volti che popolavano le case durante l'estate mi hanno raccontato di una vita del paese che procedeva parallelamente oltre il mare. Per questa ragione rifiuto l’idea – e ancor prima il sentimento – d’appartenenza come qualcosa di esclusivo, come mero atto difensivo. Rifiuto ogni processo identitario che si definisca per sottrazione. Lo rifiuto intimamente, culturalmente e politicamente”.

Come e quando ha incontrato la musica?

“È stato grazie a mia sorella e ai suoi consigli. Avevo 15 anni e bastò l’ascolto di una sola canzone. Un innamoramento improvviso e – ne fui immediatamente consapevole – definitivo. Cambiò tutto dalla notte al giorno. In poche settimane imparai a suonare sulla chitarra gli accordi che mi sarebbero serviti, riempii un’agenda intera di parole, scrissi un primo embrione di canzone. Ecco, sicuramente una fase del mio rapporto vitale con la musica che potremmo definire istintiva. Nell’anno successivo ebbi uno scambio epistolare e musicale con quello che era stato il mio professore di inglese alle scuole medie, Persico. Fu fondamentale per la mia prima formazione musicale: mi passò un sacco di dischi fornendomi parallelamente gli elementi per contestualizzarli e comprenderli. Così, in pochi mesi, passai dall'essere un adolescente appassionato di calcio e nella cui vita la musica non aveva davvero alcun ruolo, all’essere un giovane musicista che ascoltava i Beatles, i Pink Floyd e Miles Davis e che cercava continuamente di scrivere delle canzoni”.

Nei suoi testi c’è un impatto visivo notevole, quasi non c’è bisogno di un videoclip ad accompagnare i suoi pezzi che hanno appunto un’autonomia “cinematografica”. Scrive le parole prima o dopo la musica?

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Per alcuni brani del mio primo disco,

La macarena su Roma, ho musicato

dei testi già largamente compiuti. Mi è anche capitato di scrivere musica e parole contemporaneamente, ma se la memoria non mi inganna si è trattato soltanto di due o tre episodi in tutta la mia vita. Quindi, in linea di massima, si può dire che io scriva prima la musica e soltanto dopo le parole. Partire dalla musica, però, non significa dover concepire da zero e solo in un secondo momento i testi. Mi spiego meglio: io scrivo le mie melodie di getto, tutte d'un fiato. Quando percepisco che il momento è arrivato, trovo una maniera di registrarmi, premo rec, canto. E quel che viene fuori è quasi sempre la melodia del brano fatta e finita. Accade molto raramente che debba mettervi mano in un secondo momento, che debba correggerne dei passaggi o addirittura rivederla da capo. C’è un'ultima cosa da dire: io prendo appunti continuamente, raccolgo suggestioni e riflessioni, sottolineo e riscrivo passaggi dei libri che leggo e che mi hanno per un qualche motivo colpito. Sono continuamente al lavoro, elaboro continuamente. Allora, forse, la domanda giusta da fare sarebbe: quando iniziano realmente a nascere i testi?”

Come ha potuto imporre una visione del suo mestiere tanto integerrima nonostante quello della musica sia un universo di compromessi qualche volta persino costruttivi?

“Credo semplicemente con il mio lavoro. Sono un artigiano instancabile, non mi siedo comodamente sui risultati ottenuti, cerco di non ripete mai quanto già fatto. Con le persone con le quali lavoro da sempre non mi sono mai dovuto imporre: credono profondamente in me e condividiamo uno stesso orizzonte etico ed estetico. Ovviamente il tempo e i risultati ottenuti hanno ulteriormente fortificato questa fiducia. Sono sicuramente molto fortunato perché posso lavorare in piena libertà avendo il controllo totale di tutti gli aspetti del mio lavoro. E posso farlo ricevendo costantemente la stima e il sostegno di persone che a mia volta stimo profondamente”.

Fatica è una di quelle parole che sta sparendo dall’uso quotidiano. Sempre più spesso è declinata al negativo, ci può raccontare quanta fatica ha fatto Jacopo Incani a diventare Iosonouncane?

“Una fatica enorme e necessaria. Oggi utilizziamo il termine lavoro per intendere quasi unicamente un’attività svolta in cambio di denaro. E questo ai danni di una parola che a me sta molto a cuore: mestiere. Mestiere come processo di acquisizione e trasmissione di conoscenza, di sapere. Un concetto che implica inevitabilmente la variabile fondamentale del tempo e che quindi ci inserisce in un divenire, in un processo di emancipazione che ci colloca indubbiamente in mezzo agli altri, nella storia. Ecco, il mestiere necessita di tempo e di fatica. Per me diventare il musicista che sono oggi ha richiesto tempo e fatica: ho dovuto sbagliare, correggere, scartare, capire, ascoltare. E quel che sono oggi serve principalmente a preparare quel che sarò domani”.

Nel suo mestiere contano più i sì o i no?

“Non so cosa conti in assoluto nel mio mestiere. So però per certo cosa conta nel mio modo di vivere questo mestiere. Nella vita la capacità di cogliere il momento è innegabilmente importante e lo è a maggior ragione in un mestiere fatto di incontri, di scambi, situazioni. Alla luce di ciò si è spesso portati a pensare che si debbano dire tanti si per poter essere nel flusso degli avvenimenti, per poter essere nel presente. Questa convinzione mi pare si manifesti in modo grottesco in un'epoca, come quella che attraversiamo, in cui la vanità e il terrore d'essere dimenticati paiono imporre l’obbligo di una presenza e un'esposizione di sé costanti. Non voglio condurre una vita rincorsa affannosamente dalla mia stessa presenza. Al contrario, sono convinto che il mio nome e il mio volto siano irrilevanti rispetto al mio lavoro. Vorrei si ricordassero solo la musica e le parole che scrivo, solo questo”.

Mettiamo che un interprete molto importante voglia avere da lei un pezzo d’autore, anche per contesti, e festival, popolarissimi, come si comporterebbe? Le è capitato?

“Mi è stato più volte chiesto di scrivere per altri, per degli interpreti. Quel che mi veniva chiesto, però, non era di portare la mia idea di canzone e di suono in quello specifico progetto, quanto piuttosto di porre la mia vena melodica al servizio di un prodotto di consumo che stesse rigidamente dentro precisi parametri. E molto serenamente ho ringraziato e rifiutato. Non soltanto perché trovo sciocco guardare paternalisticamente al mercato secondo il solo principio del “qui e ora” (andando di conseguenza a saturare l’etere con infinite e trascurabili brutte copie di brutte canzoni), ma anche perché non ho alcuna voglia di investire il mio tempo in progetti che non mi interessano, non mi coinvolgono, non mi divertono. Ma attenzione: se mi arrivasse una proposta artisticamente stimolante sarei ben felice di valutarla”.

Viviamo una stagione molto particolare, che cosa ha capito veramente dalla cattività a cui ci costringe la pandemia in corso? Le ha fatto rivedere qualcuna delle sue posizioni precedenti?

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Preferisco non trarre conclusioni

avventate. L'auspicio

(probabilmente ingenuo) è che una crisi di queste dimensioni – crisi che in tempi brevissimi sarà economica – possa rappresentare l'occasione per correggere finalmente iniquità e storture del mondo in cui viviamo. Ma temo non accadrà”.

Lei avrebbe dovuto promuovere il suo prossimo album Ira con una serie di concerti, esecuzioni integrali, sold out in sette piazze italiane (questo tour è stato spostato all’autunno). Cosa puoi dirci di Ira?

“Posso dire poco se non che ancora una volta ho cambiato metodo di lavoro. Dopo un primo disco (La macarena su Roma) figlio di un’intensa esperienza live e scritto a partire dall'esigua strumentazione di cui disponevo, e un secondo disco (Die) realizzato in solitudine stratificando frammenti musicali raccolti negli anni, sono questa volta partito dai sei musicisti con i quali ho scelto di lavorare ormai tre anni fa. Ho sviluppato questo disco (la scrittura, gli arrangiamenti, il suono) sulle loro peculiarità individuali e sulla loro forza collettiva. Un disco scritto in ogni singola parte da me ma realizzato attraverso un'esperienza corale intensissima”.

Come si collegano in lei l’esibizionista che sale sul palco e il ragazzo malato di riservatezza?

“Direi con la consapevolezza che l'età e l'esperienza portano. Ho trentasette anni e dieci anni ormai di carriera ufficiale alle spalle. Indubbiamente vivo oggi il mio mestiere e le sue pubbliche implicazioni in modo molto diverso rispetto anche soltanto a cinque anni fa. Salire su un palco significa accettarne l'implicita messa in scena, la ritualità fatta di gesti, ruoli, posizioni. Per questo motivo rifiuto totalmente la retorica dell'autenticità e con altrettanta fermezza rifiuto questa corsa all'esserci che sta travolgendo tutti. Non amo la notorietà, non amo essere riconosciuto per strada o al supermercato. Vivo la mia vita e scrivo continuamente. Soltanto quando sono certo di avere qualcosa da dire faccio sentire la mia voce”.

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