La Nuova Sardegna

«Diciamo basta a questa America ingiusta e razzista»

di PIERGIORGIO PULIXI
«Diciamo basta a questa America ingiusta e razzista»

Il maestro del noir contro le disparità sociali che alimentano discriminazioni e violenza

14 giugno 2020
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È un uomo dalla vita romanzesca, Don Winslow. Nato a New York nel 1953, ha origini italiane – sua nonna Evelina gestiva una bisca nella Little Palermo di New Orleans. Il suo curriculum è costellato delle più disparate esperienze professionali. Addetto alla sicurezza nei cinema. Giornalista. Investigatore privato. Consulente di assicurazioni e studi legali. Guida di safari. Drammaturgo, regista teatrale e addirittura attore. Surfista ed esperto di arti marziali. Ma è stata la passione verso la scrittura la vera costante della sua vita. L’aver avuto una nonna biscazziera deve aver giocato un grosso ruolo nel farlo propendere verso un genere letterario preciso: il noir. E di quel genere, Winslow, è diventato un maestro indiscusso. C’è stato però un evento che ha segnato drasticamente la sua carriera e la sua vita. Nel 1997 viveva lungo il confine col Messico. Un giorno i narcos, i lord della cocaina messicani, hanno massacrato diciannove innocenti in un paesino a pochi chilometri da casa sua. Don non poteva restare indifferente. Volendo capire il perché di tanta violenza, ha iniziato a documentarsi e a studiare da vicino i cartelli della droga. Il tutto si è trasformato in una monumentale opera letteraria: la trilogia di Art Keller, poliziotto della Dea, e la sua lotta ultratrentennale con il narcos Adán Barrera. Ispirata alle vicissitudini del Cartello di Sinaloa e al suo ex capo indiscusso, il famigerato “El Chapo”, la trilogia, pubblicata in Italia da Einaudi Stile Libero, consta di tre romanzi, “Il potere del cane”, “Il Cartello” e “Il confine”, che hanno reso Winslow un autore di culto, stimato da colleghi della levatura di James Ellroy e Stephen King, e adorato da milioni di lettori in tutto il mondo, che in quest’opera di larghissimo respiro e puntigliosa precisione, che copre circa cinquant’anni di “guerra alla droga”, leggono la storia recente e occulta degli Stati Uniti. Winslow tornerà sugli scaffali delle librerie italiane il prossimo 9 luglio, per l’editore Harper&Collins.

Il Messico e il Sud America sono in gravi difficoltà in questi giorni. Pensa che questa situazione avrà un impatto sul mondo del narcotraffico e sui loro affari, da una parte e dall’altra del “confine”?

«Le droghe sono a prova di recessione. I tossicodipendenti non si asterranno dal farsi o dal raggranellare un po’ di droga per paura di contrarre il Covid-19. Un drogato di eroina farebbe a meno di cibo, di un posto dove stare, di vestiti, di assistenza sanitaria – di qualsiasi cosa, in sintesi – pur di poter comprare lo stupefacente. E inoltre i narcos sono straordinariamente flessibili, se parliamo di marketing: sono in grado di manipolare senza problemi il prodotto e i prezzi, pur di venir incontro alla domanda del mercato. Per di più stanno utilizzando la pandemia per rafforzare il loro sostegno pubblico, creando banchi alimentari e addirittura servizi di assistenza sanitaria per persone economicamente messe in ginocchio dalla crisi. Niente di nuovo, intendiamoci. I cartelli da lungo tempo si sono posti de facto come una sorta di agenzia di servizi sociali primari in comunità particolarmente svantaggiate, col fine di instaurare lealtà e appoggio tra la cittadinanza. Spesso fanno ciò che i governi non possono o non vogliono fare. E questo non accade soltanto in Messico o nell’America meridionale: anche nei ghetti e nei quartieri disagiati degli Stati Uniti stiamo assistendo allo stesso scenario, con la criminalità organizzata che fornisce servizi e sostegno alla collettività. In termini di base di clientela, negli Usa stiamo vedendo qualche cambiamento a favore delle metanfetamine – più convenienti a livello economico rispetto all’eroina – che stanno riconquistando il mercato. Ma è troppo presto per asserire che ciò stia avvenendo per ragioni economiche o perché nel tempo la “base clienti” si è ridotta a causa delle morti».

In questo momento in Italia, per via della crisi economica portata dal Coronavirus, le grosse organizzazioni criminali pare stiano comprando e riscattando una larghissima parte di attività commerciali sul lastrico e – così facendo – entrano o rafforzano la propria presenza nel tessuto sociale ed economico legale del Paese. Sta avvenendo qualcosa di simile anche negli Stati Uniti?

«Sì, ed è un problema che riguarda soprattutto le piccole aziende, più che le grosse imprese. Le attività più piccole sono in affanno e hanno un disperato bisogno di liquidità. E questo porta a una perfetta relazione simbiotica: le imprese hanno urgenza di denaro contante immediato e i cartelli hanno montagne di cash da ripulire attraverso piccoli esercizi commerciali. Quindi la tentazione di usare questi soldi sporchi in forma di prestiti, investimenti o partnership commerciali è enorme. Che fai, perdi l’azienda in cui magari hai investitole energie e i sacrifici di una vita, oppure ti avvali dell’aiuto di “soci” che in un’altra situazione avresti evitato come la peste? L’abbiamo visto accadere in seguito alla crisi del 2008 e credo proprio che lo vedremo succedere di nuovo in questo periodo».

Crede che gli scrittori debbano sentire una sorta di responsabilità morale e opporsi, far sentire la propria voce in questi momenti di crisi e di tensione?

«In realtà credo di avere la responsabilità di farmi sentire come “cittadino”, in questi momenti. Poi, il fatto che accidentalmente sia uno scrittore fa sì che posso avere una cassa di risonanza più ampia rispetto alle persone comuni. In più sono un autore di noir e polizieschi, e quindi i miei libri toccano spesso tematiche sociali o legate in qualche modo alla giustizia sociale. In virtù di tutto questo, sì, ho l’obbligo morale di espormi e parlare di questi argomenti. Ovviamente la mia responsabilità più gravosa, come autore di romanzi noir e sociali, è quella di ritrarre la realtà in modo cristallino, per quella che è. E ancor di più, quella di restituire ai lettori – attraverso le vicissitudini dei personaggi – una limpida sensazione di verosimiglianza, come se fossero lì, in quel mondo e in quell’esatto momento. In verità, non ho mai desiderato avere un taglio politico o fare politica attraverso i libri. Ho sempre voluto soltanto scrivere delle belle storie. Però stiamo vivendo un periodo fuori dell’ordinario, del tutto illogico. La nostra democrazia è minacciata in modi chenon avevo mai visto in tutta la mia vita. Quindi, per tornare alla domanda, sì: sento maledettamente la responsabilità di espormi e di farmi sentire».

Ha dichiarato di non voler più scrivere di “guerra alla droga” e narcotraffico, dopo la trilogia su Art Keller. Ne è ancora convinto?

«Sì, ho trascorso un terzo della mia vita a scrivere la trilogia. E sono orgoglioso di averlo fatto. Ma adesso è il momento di voltare pagina. Credo di aver raccontato quella particolare storia nel modo che volevo, e soprattutto per come avvertivo l’urgenza di scriverla. Ora voglio dedicarmi ad altre vicende».

Nel romanzo “Corruzione” ha affrontato il tema di una squadra di poliziotti corrotti che – in questi giorni – sembra quanto mai attuale. Il “Black lives matter” ha valicato i confini americani, diventando un movimento di massa. Crede che si riuscirà mai a superare il problema delle disuguaglianze nel vostro Paese?

«Ne ho discusso spesso ultimamente con varie persone, molte delle quali appartenenti alle forze dell’ordine, e siamo tutti d’accordo che questa volta si respira un’aria diversa. Ci siamo passati tante volte in passato – troppe volte – ma finora non è mai cambiato nulla. Ma oggi sono più (cautamente) ottimista. Sembra che siamo sul punto di raggiungere un punto di svolta. Ci sarebbero tutta una serie di interventi molto efficaci che si potrebbero fare nell’immediato per riformare le forze di polizia. E principalmente riguardano il reclutamento, la capacità di comando e la responsabilità personale e collettiva dell’intero Corpo. Ma credo che sia un grave errore concentrarsi soltanto sulle forze di polizia».

C’è un problema di razzismo sistemico ed endemico nei dipartimenti di polizia americani?

«Assolutamente sì. Ma questo perché c’è un problema di razzismo endemico in tutta la società americana nella sua interezza. I poliziotti non vengono da Marte. Sono reclutati tra la popolazione comune. Se immergi un secchio in un pozzo e poi versi l’acqua che hai attinto in una bella bottiglia dalle forme eleganti, l’acqua rimane la stessa del pozzo, con tutte le caratteristiche positive e negative. Qui è esattamente la stessa cosa. Dobbiamo prendere atto delle cose e cambiare come società».

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