La Nuova Sardegna

Spenta la voce del narratore dell’anima e della carne che difendeva l’ambiente

di COSTANTINO COSSU
Spenta la voce del narratore dell’anima e della carne che difendeva l’ambiente

Lo scrittore cagliaritano è mancato ieri all’età di 68 anni per un tumore I suoi romanzi e la battaglia contro la devastazione dei paesaggi e delle coste

30 luglio 2020
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Giorgio Todde ci ha lasciati. Ha combattuto a lungo contro un tumore che alla fine non gli ha lasciato scampo. Se n’è andato alle cinque del mattino di ieri, a 68 anni. Si apre un vuoto enorme nelle vite delle persone più vicine, i suoi cari e gli amici.

Perché Giorgio era una persona dolce e gentile, che sapeva ascoltare. E capiva anche ciò che non sapevi o non volevi dirgli. Nello stesso tempo è una perdita grande perché, in questa nostra isola troppo avvezza a compiangersi, invischiata in un eterno complesso di inferiorità, apriva spazi di esperienza e di conoscenza (queste due parole Giorgio preferiva alla parola cultura) utili per tutti.

Giorgio era un medico. Attento e scrupoloso, sempre vicino ai pazienti. Per lui erano persone intere, mai numeri senza identità di una cartella clinica. Per tanti anni, l’ospedale è stata come una seconda casa. E la sua esperienza di medico è stata fondamentale anche per l’altro suo lavoro, quello di scrittore, in un senso che proveremo a dire.

Giorgio esordisce come narratore nel 2001 con “Lo stato delle anime” (Il Maestrale), quando ha 50 anni. Il protagonista è un medico, per l’esattezza un anatomo-patologo: Efisio Marini. Cagliaritano, Marini è un personaggio realmente esistito (1835-1900). E’ passato alla storia della medicina come “Il Pietrificatore”perché aveva inventato un modo di imbalsamare i cadaveri molto efficace: diventavano solidi quasi come statue di pietra. Ma Marini andava anche oltre. Era capace di “sciogliere” nuovamente le sua mummie per poi, ancora, ripietrificarle. Insomma, giocava con la morte. Ecco... giocare con la morte. Questo Giorgio credeva che facesse ogni scrittore vero; in ogni caso, questo era ciò che a lui interessava fare quando usava la scrittura per narrare. Lo ha fatto in tutti i suoi libri. Ne ha scritti undici nell’arco della sua attività. Con “Lo stato delle anine”, sono altri quattro quelli in cui Marini è il protagonista: “Paura e carne”, “L’occhiata letale”, “E quale amor non cambia”, “L’estremo delle cose”.

Giocare con la morte come faceva Marini, quindi. Tante volte, in pubblico e in privato, gli ho sentito dire che la morte è uno dei più potenti motori narrativi. Lo è ad esempio in tre filoni di genere come il noir, il poliziesco e l’horror; nella scrittura narrativa come nello sterminato profluvio di serie televisive più o meno guardabili che a quei tre filoni si richiamano. Ma lo è in tutto il canone letterario occidentale, dall’Iliade a Shakespeare, da Rimbaud a Céline, da Cioran al sardo Salvatore Satta. Una tradizione alla quale Giorgio aggiungeva un’intonazione particolare. Aveva fatto sua la lezione del Freud di “Al di là del principio di piacere”. Tanti anni nelle corsie di un ospedale insegnano. L’ospedale è un luogo in cui la vita si affida alla cura, spesso per sfuggire alla morte. Giorgio aveva ben presente l’istinto primario alla sopravvivenza, vedeva tutti i giorni quanto la forza che ci spinge a restare in vita, la forza del piacere, del desiderio, sia potente. Ma anche vedeva come questa forza si intrecci a un fattore di uguale importanza negli equilibri psichici dell’individuo, la pulsione di morte. Come per l’ultimo Freud, anche per Giorgio gli esseri umani non cercano solo il piacere, ma inconsciamente desiderano anche la propria morte, come ritorno a un’origine misteriosa. Questo doppio passo muove non solo la serie noir su Marini (dove “Il Pietrificatore” si trasforma in un investigatore che risolve casi di morti oscure), ma tutti i libri di Giorgio. Che sono macchine narrative mirabili, in cui la vita scorre sontuosa nella sua bellezza, nell’abbraccio caldo e pieno del piacere, e insieme accoglie in sé il senso di un limite che non è, però, mai disperazione. La partita della vita si gioca sempre su due tavoli, che non è possibile separare. Vita e morte si intrecciano come in una struggente milonga.

Di Giorgio Todde però non si sarebbe detto tutto se non si aggiungesse che è stato un militante ambientalista. In realtà, a lui la parola militante non piaceva. Troppo unilaterale, troppo legata a una visione della politica dove contano soprattutto i rapporti di forza, e quindi, alla fine, la violenza. Giorgio piangeva di fronte alla bellezza di un paesaggio. Piangeva di felicità. Era la bellezza che gli interessava difendere. E lo faceva con i suoi modi gentili. Intransigente, ma senza mai alzare la voce, fermo nella denuncia delle responsabilità dei devastatori dell’ambiente e del paesaggio, ma sempre saldamente ancorato, nella polemica, ad argomentazioni razionali. Voleva convincere più che vincere. Voleva che si capisse quanto distruggere la bellezza sia insensato, non solo perché ci rende tutti più poveri in termini di esperienza e di conoscenza, ma anche perché ci impedisce di vedere che non è con il turismo di rapina, con il consumo dissennato di suolo, con la speculazione immobiliare che si può costruire il futuro, in Sardegna (terra che Giorgio amava profondamente) e fuori della Sardegna. Giorgio provava a dire che in un mondo che rischia il collasso ambientale, difendere la bellezza diventa una questione di sopravvivenza. E senza una svolta nel modo di intendere, innanzitutto sul piano della produzione e dei rapporti sociali, il legane tra uomo e natura, il rischio è – non si stancava di ripetere – che prevalga un istinto autodistruttivo. Queste cose Giorgio Todde scriveva sulla rubrica, “Il noce”, che per diversi anni ha tenuto sulla Nuova Sardegna. Pezzi brevi di straordinaria chiarezza che Il Maestrale ha raccolto nel 2010 nel volume “Il noce. Appunti su un’isola rinnegata”. Rinnegata, la Sardegna, innanzitutto dai sardi. Giorgio sosteneva che, prima ancora che nella cultura e nella lingua, la nostra identità sta nei luoghi: paesaggi unici di eccezionale bellezza. Bellezza che troppi sardi non sanno vedere.

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