La Nuova Sardegna

Un classico del Novecento che indaga l’abisso del Nulla

di Alessandro Marongiu
Un classico del Novecento che indaga l’abisso del Nulla

Da domani in edicola il romanzo di Salvatore Satta “Il giorno del giudizio”, sesto volume della collana di narrativa che la Nuova propone ai suoi lettori

05 novembre 2020
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«L’odio rende il matrimonio più indissolubile dell’amore»; «il potere, contro le apparenze, si manifesta più col dare che col togliere»; «chi lavora ha sempre ragione su chi insegue le sue chimere, e intanto non lavora»; la vita, «questa invisibile ragnatela nella quale uno incappa come una mosca, e non fa che divincolarsi per sfuggire al ragno che accorre dal centro dove sta in agguato»; «cosa pubblica e cosa di nessuno sono la stessa cosa»; «la differenza tra la regina e la schiava corre sul filo del rasoio»; «la povertà crea intorno a sé un alone di poesia, ma stabilisce un diaframma col mondo, che è per sua natura ricco»; «gli animali sono eterni, perché non hanno speranza»; «l’umanità è il demonio che Dio non riesce a distruggere»; «la famiglia, questo mistero, in cui la nostra persona si moltiplica, non vince, ma accresce la solitudine»: sono solo alcune delle sentenze memorabili di cui trabocca, e che ci ha consegnato, giusto uno tra i suoi tanti inestimabili lasciti, “Il giorno del giudizio”. Una delle innumerevoli chiavi per testimoniare la grandezza dell’opera di Salvatore Satta può essere questa, delle cosiddette sentenze: dalle quali potrebbero nascere – o per l’ironia tagliente o per la perentorietà, che riporta alla mente le sacre scritture – altrettanti aforismi o proverbi. Ma il vero valore, queste frasi, lo raggiungono se le riveniamo nel romanzo: lì dove, pur con la loro evidente natura di massima, di detto che mira a farsi universale, sono sempre perfettamente incastonate al centro o in conclusione di un episodio narrativo o descrittivo.

Si vuole con questo dire che Satta, in una maniera che ha del prodigioso, mentre racconta di don Sebastiano Sanna Carboni, di donna Vincenza Vugliè e dei loro sette figli, di Pietro Catte e di tutti i restanti personaggi, mentre racconta di quel microcosmo che è Nuoro (la quale, personaggio tra i personaggi, fa romanzo a sé), sta raccontando del mondo nel suo complesso. E quindi anche di noi. È una delle caratteristiche che fa già oggi de “Il giorno del giudizio”, ma tale lo faceva fin nel momento della prima apparizione, un classico: appunto, l’universalità. Per quanto la città sia descritta e percorsa in ogni quartiere, in ogni via, in ogni anfratto; per quanto ne sia ricostruita la storia («se storia si potevano chiamare le notizie che canonico Fele, in fama di dotto, aveva raccolto negli archivi dell’episcopio»); per quanto in profondità il narratore entri nell’animo dei caratteri che ha scelto di raccontare (o che hanno scelto lui per essere raccontati), Nuoro e le vicende de “Il giorno del giudizio” coincidono con il mondo tutto («Due, tre secoli fa Nuoro non esisteva neppure come un nucleo di capanne: nessuna delle carte antiche della Sardegna, che pure riportano i nomi rimasti oscuri di Ollolai, Orani, persino Orzullè, porta il nome di Nuoro. Questo vuol dire che Mons. Roich ha messo la prima pietra, come han fatto a Brasilia o a Canberra»). Tanto con il mondo del passato, quanto con il mondo del presente.

E si può sostenere quest’ultima affermazione in virtù di un ulteriore tratto distintivo del romanzo, ovvero l’alternarsi senza soluzione di continuità dei tempi verbali. Ci si faccia caso, durante la lettura. Non potrebbe del resto essere altrimenti, in un luogo in cui il passato e il presente, i vivi e i morti, coesistono e si confondono. Un passo, prima di continuare affidandoci a più sagge parole, risulta esemplificativo e definitivo: «Questo in fondo era il grande problema di Nuoro. C’erano preti, c’erano avvocati, medici, professionisti, mercanti, c’erano poveri manuali, il ciabattino e il muratore, il maestro delle scarpe e il maestro del muro, c’erano gli oziosi, i miseri e i ricchi, i savi e i matti, chi sentiva l’impegno della vita e chi non lo sentiva, ma il problema di tutti era quello di vivere, di comporre col suo essere lo straordinario e lugubre affresco di un paese che non ha motivo di esistere. Di un paese, come del mondo, forse». Le più sagge parole su richiamate sono quelle, ormai celebri, di George Steiner. Ma se le evochiamo, e le evochiamo proprio in quanto sagge, è, in linea con la contraddittorietà argomentativa che percorre le pagine sattiane, per (con la consapevolezza delle debite proporzioni, cioè umilmente) contestarle. Scriveva il grande critico francese, tessendone le lodi, che «“Il giorno del giudizio” è un libro difficile da descrivere». La verità è che “Il giorno del giudizio” non è un libro difficile da descrivere, ma impossibile da descrivere. Come ogni capolavoro. Per affrontare l’impresa, anche sapendo che non la si potrà superare, non ci resta che una carta – una carta, riteniamo, perfettamente affine allo spirito del romanzo: convocare chi non è più tra noi.

Ecco allora tre voci di chi non è più tra noi, ma solo fisicamente: perché di certo è e continuerà a essere con noi. Giulio Angioni: ne “Il giorno del giudizio” si incarna «quel qualcosa che diciamo arte, poesia e simili, capace di aggiungere al vero un suo misterioso ma efficace e convincente supplemento, non superfluo ma necessario, perché ciò che diciamo arte pare funzionare come quelle sostanze misteriose che nel buio fanno ricomparire il passato “come in un negativo che si sviluppa”». Salvatore Mannuzzu: «Cos’è la tremenda nostalgia di Salvatore Satta per quel mondo gretto, di mediocri e radicati interessi, di ossessioni cupe e matrimoni senza amore? Satta non ne vuole fare l’elogio. Ma sa che era un mondo capace di un senso: tutta la vita ci si assestava attorno come un grande sciame di api si raccoglie in grappolo a difesa della sua regina. Invece nel mondo in cui Salvatore Satta si ritrova adulto (che poi è il nostro, ora e qui) non c’è più senso». Giorgio Todde: «Ho richiuso “Il giorno del giudizio” poco fa. Personalmente non cerco la logica in una narrazione, non è necessario che risponda a un ordine filosofico oppure religioso. Non è necessario – il più delle volte è impossibile – comprendere del tutto un libro. Ma questo senso di irrisolto, questa sensazione di resa davanti alle cose e, quindi, alla morte, la certezza di non aver trovato nessun senso a nulla, un senso di terribile Nulla: tutto questo mi lascia una desolante certezza di avere letto una specie di tutto e visto tutto, sino all’aldilà. E sento bisogno di luce. “Il giorno del giudizio” costituisce uno di quei grandi libri denominati “libro fungo” (l’immagine fu riferita per la prima volta a “Cent’anni di solitudine”), che nascono solitari e non assomigliano a nessun altro libro. Libri che stanno fuori dal flusso letterario e, in un certo senso, che stanno fuori anche dalla storia della letteratura perché, se è possibile, nascono misteriosamente al suo esterno. Forse in questo consiste l’assolutezza di un libro, quando viene definito assoluto».

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