La Nuova Sardegna

Le principesse “rotte” di Valentina Sinis in mostra a Brooklyn

Enrico Carta
Le principesse “rotte” di Valentina Sinis in mostra a Brooklyn

La fotografa oristanese pluripremiata racconta la storia di una mostra in programma a luglio del 2021

01 dicembre 2020
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ORISTANO. L’ha voluta chiamare “Broken princess”, la principessa spezzata. Bambina sino a ieri, diventata all’improvviso adulta. Rotta, distrutta nel fisico, certo, ma prima ancora nell’anima. Non è una sola, sono tante principesse ed è nei loro sentimenti che si consuma la tragedia originaria delle spose di quella parte di mondo che a noi evoca personaggi mitici della letteratura. Ma oggi, la zona del Kurdistan iracheno è tutto fuorché un luogo da favola. Quel che non manca sono le avventure umane, pane quotidiano per l’oristanese Valentina Sinis e per la sua macchina fotografica. Documentarista e fotogiornalista, nel 2017 aveva scattato una delle 100 foto dell’anno tra quelle indicate dalla classifica di Time Magazine. Il suo obiettivo aveva immortalato una piscina a Chengdu, città della Cina in cui viveva sino a qualche anno fa. Era colma di corpi immersi, con le sole teste coperte da cuffie dai colori sgargianti che emergevano in superficie. Un ammasso multiforme che aveva colpito nel segno.

Ma non si è fermata lì. È in giro per il mondo che le vite di persone sino a ieri sconosciute lasciano un altro segno, quello che porta la fotografa a fissare vite e istanti, figli del rapporto intimo e della connessione che chi scatta riesce a instaurare con il soggetto. In una zona come il Kurdistan iracheno, spesso infuocata per via delle bombe e delle guerre, un altro fuoco e altre fiamme hanno acceso la curiosità di Valentina Sinis. La storia della sua nuova serie fotografica, che doveva essere esposta nella galleria d’arte El Barrio’s art space a Brooklyn, New York, e che il covid ha rimandato a luglio, nasce però lontano dal fuoco che nelle immagini non si vede. Fuoco che di quelle immagini è però origine.

Nasce per strada dove lo sguardo è attirato da bamboline piccolissime delle dimensioni di trenta centimetri. Sono vestite da principesse e quelle bambole le si ritrova poi dentro le case, gioco per le piccole figlie della comunità che in tenera età vengono trattate proprio come principesse. Poi però i valori tradizionali e culturali ribaltano completamente questa visione. Il momento del matrimonio segna la fine di un certo tipo di vita e l’ingresso in quello che per molte di loro è un inferno. Non lo è solo in senso letterale, perché, il gesto ultimo e disperato che compiono, le uccide o ne devasta per sempre il fisico. Costrette nel rigido canovaccio della vita domestica, senza possibilità di lavorare e con un’unica missione consentita ovvero quella di occuparsi della casa e della famiglia, non vedono altra via di fuga se non quella del suicidio. Per metterlo in atto non hanno armi, non usano corde per impiccarsi, ma si lasciano portare via dal fuoco in una morte che richiama drammi da tragedia greca.

Non è però col suicidio di una di loro che il reportage ha inizio. Prende invece le mosse dalla notizia di un processo celebrato a Chanchaman il cui imputato è un uomo. Viene condannato a morte dopo aver dato fuoco alla propria casa e aver tentato di far passare l’omicidio della moglie e dei tre figli come un suicidio. «Erano vicende che avevano catturato già la mia attenzione, ma sentendo la notizia del processo ho chiesto chiarimenti alla famiglia in cui ero ospite e ho capito che i suicidi non sono fatti sporadici tra le giovani spose di quella parte di mondo». Terre in cui non è semplice avventurarsi per cogliere l’essenza delle storie, ma con molta pazienza e conquistando la fiducia Valentina Sinis è riuscita a entrare nell’ospedale di Sulymanya, dove giovani spose curano le ferite devastanti del corpo e quelle invisibili dell’anima. «Passata quella barriera – dice – sono rimasta stupita dalla voglia di raccontare tutti gli aspetti di questo dramma». Le prime domande che ci si pone è perché così tante e soprattutto perché in modo così atroce? La risposta Valentina Sinis l’ha trovata nelle loro parole e nei loro racconti: «Per prima cosa, le ragazze che hanno tentato il suicidio dandosi fuoco mi hanno poi detto di essersi pentite per il gesto. Scelgono quella strada perché le fiamme hanno un significato ancestrale, fanno parte della cultura e simboleggiano la purificazione e la luce. Ma sono anche gesti teatrali, paradossalmente sono l’ultimo appiglio per non sentirsi invisibili».

Succede poi che negli ospedali, su richiesta della famiglia stessa, quei gesti non vengano schedati come suicidi ma come incidenti domestici. E succede anche che in mezzo a queste storie, tutte toccanti, alcune tocchino più da vicino l’anima di chi poi andrà a immortalarle con la macchina fotografica. «L’esperienza più drammatica è stata quella di una ragazzina di diciassette anni – racconta Valentina Sinis –. Non era sposata, ma voleva essere indipendente nella vita e così, dopo che il test per il diploma era andato male, ha deciso di darsi fuoco. Vedeva nello studio l’unica possibilità per non restare ingabbiata in una vita senza indipendenza. È morta dopo due giorni». Ma in mezzo ci sono tante altre storie di ragazze che dopo l’ospedale hanno iniziato una faticosa risalita e altre che, lasciato il letto, sono poi morte perché il fisico già fortemente provato non ha resistito. «È a queste persone invisibili che non hanno voce che voglio dare respiro. Racconto le vite di chi si è salvato ed è riuscito a proseguire. Ho scattato oltre 10mila foto in due anni, alla mostra ne esporrò dieci sognando un giorno di poter far nascere un centro che possa fare da ritrovo per queste broken princess».

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