La Nuova Sardegna

L’arte di rievocare gli amici tenendo la giusta distanza

L’arte di rievocare gli amici tenendo la giusta distanza

“Due vite” di Emanuele Trevi: nei ritratti di Rocco Carbone e Pia Pera un’ammirevole combinazione di biografia e autobiografia, critica e romanzo

13 dicembre 2020
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«Più ti avvicini a un individuo, più assomiglia a un quadro impressionista, o a un muro scorticato dal tempo e dalle intemperie: diventa insomma un coagulo di macchie insensate, di grumi, di tracce indecifrabili. Ti allontani, viceversa, e quello stesso individuo comincia ad assomigliare troppo agli altri. L’unica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti è cercare la distanza giusta, che è lo stile dell’unicità»: se in ere passate la si sarebbe definita una dichiarazione di poetica, oggi, con (forse) un po’ meno pedanteria, potremmo parlare di nucleo concettuale dell’opera.

Svelare quale sia l’opera in questione, ovvero “Due vite” di Emanuele Trevi (Neri Pozza, 148 pagine, 12,50 euro), impone delle precisazioni – se il vocabolo non fosse estremamente riduttivo, poiché si tratta piuttosto di faccende quintessenziali. La prima è che a “nucleo concettuale” bisogna sostituire “nuclei concettuali”: “Due vite” non si esaurisce certo infatti nella sola dimensione del ritratto scritto. La seconda è che quanto si va dicendo deve essere allargato alle due precedenti opere di Trevi “Qualcosa di scritto” e “Sogni e favole”, che, pur con le innegabili diversità, insieme a “Due vite” costituiscono i (primi?) lunghi capitoli di un unico – sottolineiamo la parola: unico – corpus. Un corpus che è arte teoria e pratica del ritratto; biografia e autobiografia; critica letteraria; romanzo; riflessione sulla fotografia (in generale, e su quella di ritratto in particolare). E chissà cos’altro, viene da dire.

Per spiegare cosa intendiamo prendiamo a mo’ d’esempio la frase «L’unica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti è cercare la distanza giusta, che è lo stile dell’unicità»: la quale frase sembra limpida e rivelatoria laddove è, all’opposto, tutto meno che rivelatoria e profondamente oscura. In cosa consisterebbe «lo stile dell’unicità»? Chi (l’autore, il soggetto) o cosa (la scrittura) deve essere unico? Essere unico e possedere «lo stile dell’unicità» sono cose equivalenti? La «distanza giusta» riguarda il trascorrere del tempo, l’acquietarsi dei sentimenti verso l’argomento o la persona di cui si scrive, l’occuparsi solo di chi non è più tra noi? Con grande finezza Trevi non aggiunge altro, prosegue oltre, e noi lettori ne sappiamo quanto prima. Forse, in realtà, meno di prima: e giustamente. Allo stesso modo, metterne in fila gli elementi costitutivi (ritratto; biografia e autobiografia; critica; romanzo; fotografia) sembra gettare luce completa sul trittico di Trevi e invece, in termini di conoscenza, si è punto e a capo: perché a partire da “Qualcosa di scritto” l’autore romano sta componendo opere che sono molto più della semplice somma degli elementi che le costituiscono e che, sfuggendo a ogni classificazione, si possono classificare solo coniando l’aggettivo “treviane” (risiederà magari in questo «lo stile dell’unicità»?).

Venendo a “Due vite”, non si può tacere come rispetto a “Qualcosa di scritto” e “Sogni e favole” appaia di minor accecante bellezza: ma ciò è dovuto giusto a un effetto prospettico, a una parziale riduzione del raggio d’azione, che Trevi s’impone per rievocare Rocco Carbone e Pia Pera, uniti a lui e tra di loro da una grande, lunga amicizia anche a fronte di tempre tanto diverse. A tutti gli effetti, “Due vite” è una nuova tessera del mosaico treviano: uno dei pochi, attualmente, davanti ai quali c’è da stare in estatica ammirazione.

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