La Nuova Sardegna

«Il virus ci rivela un mondo sbagliato»

«Il virus ci rivela un mondo sbagliato»

Il grande reporter Uliano Lucas riflette sul ruolo del fotogiornalismo ai tempi del Covid e parla del suo nuovo libro

03 gennaio 2021
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La disturbo? «No, assolutamente. Sono a casa come tutti in questo periodo e mi capita di ritrovare materiale che non avevo messo via bene e così ora sto lavorando all’archiviazione di un reportage fatto in Albania nel 1993».

L’archivio fotografico di Uliano Lucas è un patrimonio inestimabile di storia dell’umanità. Lucas è uno dei fotoreporter italiani più importanti della storia della fotografia che con i suoi reportage, dai primi anni ’60 ad oggi non ha mai smesso di documentare la realtà posando il suo sguardo sul sociale, raccontando guerre, lotte per la libertà, disuguaglianze, contestazioni, industrializzazione, immigrazione e restituendo tutte le contraddizioni del mondo con gli occhi limpidi di chi non smette mai di voler sapere e capire. Attento, mai banale, con una capacità d’analisi fuori dal comune e sempre scevra da giudizio.

È possibile raccontare la pandemia, si può fotografare?

«Tutto si può e si deve raccontare. Il problema è come la racconti. Si può fare una rappresentazione per la cronaca, ma il reportage diventa più difficile: è necessaria una grande intelligenza per riuscire a raccontare al di là della commozione quello che sta accadendo. Ci vuole cultura e sensibilità per trovare una traccia narrativa».

Sentiamo spesso paragonare la pandemia alla guerra. Lei che di guerre ne ha fotografato tante. Iconici i suoi reportage su scenari di guerra e sulle lotte per la libertà, dal Portogallo di António de Oliveira Salazar alle guerre di liberazione in Eritrea, Guinea-Bissau, Angola, la Giordania del Settembre Nero, le guerre in Jugoslavia. Pensa sia un paragone fattibile?

«Sono paragoni sciocchi! Come quando dicono che abbiamo più morti che nel ‘44… Non ha alcun senso. Innanzitutto, perché le persone non ricordano quanti morti abbiamo avuto durante la guerra ma soprattutto perché la guerra ha in sé tutta la brutalità del sangue. Qui invece è tutto impalpabile. Se dovessi fare un reportage su quello che sta accadendo entrerei nella stanza di un malato di Covid, che non può avere relazioni con gli altri, che non può vedere i suoi cari, che è nelle mani di medici e infermieri all’interno di una catena di montaggio e che si ritrova a dover fare i conti con la solitudine. Quella solitudine del pensiero che guarda il proprio corpo malato e che porta verso l’angoscia. Proverei ad entrare “nel corpo e nel tormento dell’altro” per capirne il dramma, che so, attraverso lo sguardo, il volto, le mani, li arredi che lo circondano, la luce che entra nella stanza. L’ansia di chi si accorge che il problema è serio».

Lei è molto attento alle dinamiche sociali che attraversano l’Italia e il mondo. Crede che questa pandemia sia una sorta di gateway tra un mondo e l’altro?

«Questa pandemia ha messo in ginocchio il sistema economico neoliberale, rimescolando tutta una serie di certezze care al mondo più progredito, fiducioso sinora in un progresso infinito. Ora tutto è in discussione, dal rapporto dell’uomo con la natura, con chi ci sta intorno, con il territorio sino a cosa ognuno di noi rappresenta all’interno di questo nostro globo. Uno scossone per il sistema capitalista, anzi, per il sistema consumistico. Si produce per consumare e basta. Se non produci per consumare crolla il meccanismo. Quindi il domani prevede la riorganizzazione del sistema che passa attraverso un tipo di produzione che ha bisogno di pochi occupati e tutti specializzati in alta tecnologia».

E tutti gli altri?

«Le avvisaglie c’erano già da prima. Chi è stato buttato fuori dal mondo del lavoro in questo momento, quei 5milioni di italiani da aiutare, appartengono a categorie che comunque avrebbero difficoltà nell’attuale mercato del lavoro che cambia e che vede il futuro sempre più tecnologico. Il mondo del proletariato sta via via scomparendo. La pandemia ha solo accelerato questo processo».

Quindi, è finito il sistema che conosciamo?

«No, anzi ed è questo il dato affascinante. L’uomo ha grandi risorse, si rialza sempre. Quando più di 300 scienziati al mondo concorrono per trovare una fiala in grado di risolvere il problema e metterla in produzione in poco meno di un anno, beh, questo significa avere grandi capacità. L’Occidente non tramonta e il sistema economico si sta riorganizzando molto velocemente».

Uliano Lucas, per spiegare come resisterà il modello occidentale ci accompagna in un excursus che va dal Piano Marshall al Recovery fund, dallo Stato Sociale presente in Paesi come Inghilterra, Germania e Francia, che seppur provati resistono ai danni da pandemia, al mito della privatizzazione che ha investito l’Italia tra la seconda metà degli anni ’80 e i primi anni ’90, passando per la migrazione degli italiani da Sud a Nord e le grandi battaglie per i diritti degli anni ’60 e ’70 che cambiarono il Paese. Concetti che al di là della sopraggiunta pandemia sono racchiusi per immagini nel volume La realtà e lo sguardo: storia del fotogiornalismo in Italia scritto da Lucas e Tatiana Agliani, in cui analizzano le scelte culturali e politiche del nostro fotogiornalismo, seguendo la sensibilità dei fotoreporter e delle testate che come dice in questa lunga intervista a La Nuova Sardegna «sconta ancora quel provincialismo tutto italiano che ci vuole al centro del mondo senza mai rapportarci realmente con le grandi dimensioni».

A proposito di provincialismo… la Sardegna, terra a lei nota e cara dove ha intrecciato grandi relazioni umane con uomini come lo scultore Pinuccio Sciola e il suo amico fotografo Pablo Volta che aveva scelto di vivere a San Sperate, cosa ne pensa?

Come quella dell’Africa (o anche dell’Irlanda per stare in Europa) anche quella della Sardegna è per certi versi una storia coloniale. Le dominazioni nei secoli sono sempre state tese allo sfruttamento, al possesso di territori e materie prime. Basti pensare alle ferrovie che nell’800 erano in mano ai francesi e agli inglesi, o a cosa è stato lo stato piemontese. In alcuni momenti vi siete arrabbiati altre invece è stato conveniente stare zitti. Non c’è stato un gruppo dirigente, un’imprenditoria e una borghesia in grado di far uscire l’isola da quello che era un retaggio di colonialismo italo/europeo. In questo modo si è persa quell’identità sarda in grado di proiettarsi nella modernità confrontandosi con il resto del mondo».

È un po’ duro!

«No, tutt’altro. Sono legato alla Sardegna ma per voi come per chiunque, nella vita credo sia necessario guardare con chiarezza il mondo che ci circonda, senza farsi sconti. Questa straordinaria umanità di cui facciamo parte ha superato tali incredibili prove e supererà anche questa. C’è solo da saper leggere il tempo che viviamo. Più che dell’informazione abbiamo bisogno del sapere. Non smettiamo mai di andare a scuola».



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