La Nuova Sardegna

“Bandito” romanzo-verità su Matteo Boe

di GIAMPAOLO CADALANU
“Bandito” romanzo-verità su Matteo Boe

Domani con il giornale il libro di Laura Secci Sequestri e fughe raccontati in prima persona  

08 gennaio 2021
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Pubblichiamo un estratto dalla postfazione di Giampaolo Cadalanu al libro di Laura Secci “Bandito. Matteo Boe: la vita, il carcere, la libertà”, che sarà in edicola con la Nuova Sardegna da domani sabato 9 gennaio.

* * *di GIAMPAOLO CADALANU

Negli anni Sessanta sembrava normale, a noi scolaretti delle elementari di Nuoro, vedere sui muri gli avvisi di taglia per i latitanti. Dopo tutto, era come nei film western. In qualche modo la gerarchia dell’offerta di Stato per chi “forniva informazioni atte alla cattura” faceva da classifica, di fatto premiando chi si era conquistato i gradi di più pericoloso. A quell’età l’idea della ribellione e l’immagine del bandito imprendibile avevano un fascino a cui non si poteva resistere.

Qualche compagno con spirito musicale aveva persino preso a prestito le note di “Mettete dei fiori nei vostri cannoni”, per celebrare sulla canzone dei Giganti il protagonista delle evasioni più spettacolari. Balentes: questa era l’etichetta essenziale.

Un ritratto romantico di chi non si piega alle prepotenze (...) Ancora in quegli anni sa zustissia era una maledizione: indicava i carabinieri, impegnati ovviamente in un arresto iniquo. E i percorsi dell’adolescenza traducevano balente in mille sfumature di coraggio e ardore da fumetto (...). Circolava in quegli anni persino un’inconfessabile soddisfazione, nell’accogliere la notizia di un sequestro di persona: l’idea che, in fondo, la vittima aveva una buona disponibilità economica e dunque poteva permettersi di pagare il riscatto. In qualche modo il successo economico era una colpa e il sequestro una punizione meritata. Oppure c’era una ricostruzione viziata: chissà com’erano nate quelle ricchezze. (...).

Poi, lentamente, anche nelle chiacchierate fra ragazzini si è infiltrato il primo dubbio. Forse la parola di qualcuno che conosceva da vicino la famiglia del sequestrato: «Li conosco, questi, sono brave persone». La garanzia degli amici riusciva a incrinare le certezze dell’infanzia. Oppure erano le riflessioni meno ingenue fatte dal più maturo del gruppo, che aveva assorbito il monito degli adulti. Decisiva a volte era la scoperta che un nuovo amico, di famiglia benestante, viveva quasi da recluso (...)

E pian piano prendeva spazio la coscienza del dolore altrui, la verità sconvolgente che ai margini del racconto di balentia c’erano esseri umani, con la loro sofferenza, con le loro ferite mai rimarginate. Facce conosciute, qualche amico di famiglia, professionisti ricchi solo per la misura grottesca dell’invidia paesana. Alla fine la mitologia di quegli anni sprovveduti lasciava il passo allo sgomento. Viste da più vicino, le storie di banditismo perdevano la maschera leggendaria e si mostravano per l’orrore che erano. Raramente ammessa in pubblico cominciava a farsi largo la certezza delle violenze e degli stupri, strumento usato spesso per annichilire ogni resistenza dell’ostaggio, uomo o donna che fosse. Molti finivano per scoprire qualcuno che si portava dietro l’esperienza atroce della vita in catene.

Quel commerciante che, tanti anni dopo la liberazione, ancora si svegliava urlando nel letto di casa sua. Quella giovane che aveva scoperto in sé una forza straordinaria, ma aveva perso per sempre il sorriso. O magari anche quella signora gentile che dal sequestro non era più tornata. E dall’altra parte, chi c’era? Anche se l’alone di eroismo era sparito per sempre, una definizione di sola ferocia non sarebbe mai bastata. La curiosità rimaneva: questi protagonisti dei racconti nuoresi, chi erano davvero? Quanto c’era di conseguenze “subite” per percorsi di sfortuna, quanto di ignominia causata dall’avidità, quanto di umano e quanto di belluino c’era nell’anima di questi uomini? Il racconto di Laura Secci, che attraverso una corrispondenza lunga e paziente ha ricostruito la storia di un protagonista delle cronache, è prezioso, perché lo svela senza pregiudizi. L’autrice non ha bisogno di dare un giudizio esplicito, perché la natura di quest’uomo emerge bene dai suoi stessi racconti in prima persona. E quello che appare è un profilo ben poco nobile, a dispetto dei tentativi di descrizione lirica delle campagne, dei proclami di affetto per la propria terra e ancora di più delle sconnesse rivendicazioni ideologiche. Per chiarire oltre ogni dubbio, basta vedere i passi in cui questa natura si rivela aggrappata, come se nulla fosse, al più antico meccanismo dell’odio: la negazione dell’umanità, il disconosci- mento dei propri simili. È quella scelta che apre la strada a ogni abuso e legittima – agli occhi del protagonista, s’intende – il trattamento riservato alle vittime. Per lui l’imprenditore romano è una preda, esattamente come le capre sgozzate durante la latitanza. Il piccolo Farouk è solo un animaletto selvatico catturato per strappare il denaro a suo padre (che il sequestratore chiama arabo, ma arabo non è). La scoperta è sconsolante: dietro uno schermo di orgoglio e qualche pretesa e inconsistente motivazione politica ci si ritrova ancora una volta davanti alla banalità del male.

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