La Nuova Sardegna

«Baudelaire, il ruolo incivile della poesia»

di Sante Maurizi
«Baudelaire, il ruolo incivile della poesia»

Il poeta Gianni D’Elia rilegge l’autore dei “Fiori del male” a 200 anni dalla nascita

04 aprile 2021
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«Perché è tornata la piazza ragazza / su tutta la terra e senza confini / di nuovo a invadere verde di rabbia / il mondo salvato dai ragazzini». La giovinezza è uno dei temi costanti nella poesia di Gianni D’Elia. Nella nuova raccolta giunta alla seconda edizione – «Il suon di lei», in libreria per Sossella Editore – la propria, lontana «bella età» di impegno e militanza, dialoga con «i nuovi zingari felici» scesi in piazza «contro il bacio di Giuda del carbonio» e con «i giovani profughi affogati … con la pagella in tasca ripescati». I giovani sono da sempre il pubblico privilegiato di Charles Baudelaire, del quale D’Elia ha magistralmente tradotto venti poesie in «Taccuino francese» (Barbablù, 1990) e «Lo spleen di Parigi» (Einaudi, 1997). Con D’Elia conversiamo sul poeta francese a duecento anni dalla nascita.

La prima scoperta della poesia passa spesso proprio dalla lettura di Baudelaire. Perché?

«Si continua ad associare Baudelaire al mito del poeta maledetto, ribelle e autodistruttivo. Mario Richter, il più grande critico italiano che si è occupato di lui, parla invece di “atroce realismo»: Baudelaire diventa il poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato, come Giorgio Agamben ha intitolato una raccolta di saggi di Walter Benjamin. Per questo “ci serve”: ci serve come critica del presente».

Baudelaire poeta civile?

«Dobbiamo intenderci. Il poeta civile parla “nella” città, ma anche contro. Pasolini titola “Poesie incivili” l’ultima sezione della “Religione del mio tempo”. Baudelaire – come Dante, Leopardi o appunto lo stesso Pasolini – è un “poeta incivile”: sono tutti non-cittadini, con loro diventa evidente la non-cittadinanza della poesia. I grandi poeti sono stati isolati, esiliati, imprigionati o addirittura uccisi. Poi l’accademia si impadronisce del corpo morto del poeta e lo incorona».

È capitato anche a Baudelaire.

«Era in qualche modo inevitabile. La Francia non ha avuto Dante: Baudelaire è l’Alighieri francese. Nei “Fiori del male” condensa l’inferno, il purgatorio e il paradiso della modernità. Una Commedia scritta da un dannato. Non a caso parte dal lettore per arrivare al voyage finale e al tema della morte. È un racconto, come dice Richter, ma anche una drammaturgia, fatta di tanti personaggi, e libro di eresia: perché scava nella tradizione cristiana, e attraverso un percorso nel mondo antico arriva a un sincretismo religioso che sa molto, appunto, di eresia. “I fiori del male” sono una sorta di Vangelo apocrifo per il lettore borghese, anche per noi oggi».

Visto così, il poeta francese chiede molto a chi legge. C’è ancora un lettore di questo tipo?

«Credo di sì. Perché c’è ancora qualcuno che si accorge che allo stato delle cose non corrisponde uno stato delle parole. Penso ai ragazzi che ho visto scendere in piazza innalzando uno striscione con su scritto “Quo usque tandem abutere patientia nostra”: citavano il Cicerone di duemila anni fa per esprimere il proprio sentire di oggi. Credo a un lettore-ragazzo che di fronte all’apocalisse non rinuncia all’idea di una palingenesi, e incontra la poesia. Quella poesia che in forma alta – ritmica, musicale – riesce a dare voce a ciò che è rimosso o negato».

Ritmo e musica: arnesi obsoleti?

«Io credo che la poesia sia molto legata al ritmo e alla rima. Frequento Dante quotidianamente, apro la Commedia come si potrebbe aprire un libro di cabala: non c’è una terzina in cui non venga fuori una suggestione, una profezia. Ma senza la rima Dante non avrebbe resistito al tempo. La forza della rima è che mette in rapporto cose diverse attraverso suoni analoghi. Questo è il lavoro – e il regalo, e la missione – del poeta: dal “vo significando” di Dante al “vo comparando” di Leopardi, al “Je vais m’exercer seul à ma fantasque escrime” di Baudelaire: “Mi vado esercitando da solo nella mia fantastica scherma”, come chiama la poesia. Nel ventottesimo canto del Purgatorio Dante incontra Matelda, forse il personaggio più enigmatico della Commedia: “e là m’apparve, sì com’elli appare / subitamente cosa che disvia / per maraviglia tutto altro pensare”. Tra il secondo e il terzo verso c’è un endecasillabo nascosto: “cosa che disvia per maraviglia”. È la definizione segreta della Commedia, la risposta alla domanda “che cosa è la poesia?”. Così noi associamo i pensieri grazie a questo gioco di scherma – di corrispondenze e discordanze, di finte e affondi – tra il dire e la musica. E questo dell’associazione è ben più di gioco. Nel trentesimo dell’Inferno Dante punisce i falsari con la “febbre aguta”: e la nostra pandemia non è forse la febbre acuta nell’epoca della comunicazione menzognera? Pensa a un anno fa, tutti chiusi in casa a fare il pane e consigliare i libri da leggere, mentre è urgente – come la cura – riflettere su una teoria sulla rovina. Te li immagini Pasolini o Foucault che di fronte alla pandemia si mettono a fare il pane?».

La poesia come mappa: in senso metaforico ma anche come carta geografica. La Parigi di Baudelaire e la tua riviera adriatica.

«Baudelaire ha di fronte la tumultuosa metropoli ai suoi albori. Io, si parva licet, da una parte quello che Aldo Bonomi ha chiamato “il distretto del piacere”: questa lunga Florida italiana che va da Venezia a Bari, con i miti e i riti dell’ozio, della festa; dall’altra il rapporto mistico con il mare. Entrambi i luoghi somigliano a quella che Dante chiama “la città partita”, fatta di fazioni, fondata sulla discordia. È quella città per la quale chiede a Ciacco nel sesto canto “s’alcun v’è giusto”. E chi ha “partito” la città? Risponde dieci canti dopo: “La gente nuova e i sùbiti guadagni”.

Dopo trent’anni in Einaudi pubblichi ora da Sossella. Nel tuo ultimo libro c’è una sorta di pamphlet in rima, «Il tradimento dello Struzzo». Perché?

«Scrivo che non è più l’Einaudi di Giulio, e che “il bello Struzzo è finito in mano ai sosia”. Negli ultimi cinque anni, per censura politica, mi hanno rifiutato due libri. Einaudi ha tradito la propria storia, prima e oltre il tradimento nei miei confronti. Comunque penso di aver chiuso con la lirica in versi, sto lavorando da anni a una sorta di Recherche che si intitola “L’ozio della riviera”. È il mio “Spleen di Parigi”, che cerca di raccontare la vita di un uomo immerso in questi trent’anni di devastazione consumistica. Con il mare – i colori, i suoni, la sua “pelle” – che riconnettono il protagonista alla sua infanzia. Anche Baudelaire dopo “Les Fleurs” sentì il bisogno di esprimersi in una prosa poetica che, come scrisse in una lettera, gli consentisse “più libertà, più particolari e più sarcasmo”. Il risultato fu “Le Spleen”: una musica civile, irritata, una critica permanente allo stato delle cose, che ha bisogno d’altra parte della ricerca, quasi mistica, di una via d’uscita dall’apocalisse».



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