La Nuova Sardegna

No al “De profundis” Il retroscena del rifiuto di Einaudi

di Alessandro Marongiu
No al “De profundis” Il retroscena del rifiuto di Einaudi

L’intensa amicizia e il dialogo tra i due intellettuali ricostruiti in un volume curato da Angela Guiso e da Carlo Felice Casula

15 giugno 2021
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Persone più distanti non si sarebbero potute dare, specialmente rispetto «alla modalità dell’agire», ma questo non impedì che tra loro nascesse una duratura e «profonda amicizia». “Loro” sono Salvatore Satta e Piero Calamandrei, noti giuristi accomunati dalla costante tensione verso la letteratura, che condivisero un lungo tratto delle rispettive vite, come testimonia ora il prezioso epistolario “Lettere a Piero Calamandrei 1939-1956” (Il Mulino, 224 pagine, 20 euro), intestato a Satta – che figura tra i due come il principale mittente – e curato con attenzione massima da Angela Guiso e Carlo Felice Casula.

Punto cruciale. Partiamo dal carteggio. Dopo una lettera e un biglietto di Calamandrei a Satta, si arriva a un punto cruciale, che occupa circa un terzo dell’epistolario e rappresenta forse l’aspetto più interessante del volume: il destino travagliato del “De Profundis” sattiano. Siamo al termine del maggio 1946, e a pochi giorni dalla consultazione che segnerà il passaggio dalla monarchia alla Repubblica il sardo scrive all’amico, a cui ancora si rivolge con il lei, per domandargli se abbia ricevuto il manoscritto di quell’opera in cerca d’editore. Non è trascorso un mese, che Calamandrei («dammi del tu: sennò metti in soggezione anche me!») scioglie ogni dubbio: «Dunque: il tuo saggio è stupendo; e mi ha profondamente commosso. Bisogna pubblicarlo.» E continua: «Intanto ti chiederei di pubblicarne qualche pagina sul “Ponte”», ovvero sulla rivista cui lo stesso Calamandrei aveva dato vita nel 1945 e che avrebbe diretto fino alla sua scomparsa nel 1956. Nella replica quasi immediata, dopo aver espresso la gioia per il giudizio così lusinghiero, Satta fa questa importante considerazione circa la natura del testo: «(…) al fondo dello spietato esame di coscienza sta una incrollabile e quasi soprannaturale speranza. È un libro triste, ma non desolato e desolante, un libro che io sono convinto possa fare del bene, anche a chi non sia disposto a condividere il mio personale atteggiamento di fronte alla nostra spaventosa esperienza».

La bocciatura. La considerazione è figlia, in massima parte se non del tutto, del rifiuto opposto alla pubblicazione dall’Einaudi per il tramite di uno dei suoi fondatori, Massimo Mila. Le motivazioni di quest’ultimo sono riportate dalla Guiso nel suo saggio introduttivo, e sono motivazioni dure, aspre, che prefigurano la lunga serie di incomprensioni cui andranno incontro tanto “De Profundis” quanto Satta.

Partigiani. Scrisse Mila: «(…) il suo modo di vedere le cose è troppo radicalmente diverso dal nostro. (…) non spingiamo la nostra tolleranza fino ad un punto che significherebbe addirittura l’annientamento delle nostre persone e della modesta opera da noi svolta durante quelle vicende che Lei esamina con tanta perspicace spregiudicatezza. Nella nostra casa editrice siamo stati tutti partigiani, e non accettiamo la Sua posizione degli avvenimenti 1940-1945 in termini sostanzialmente nazionalistici, di vittoria o sconfitta militare: quello che ci importa è la vittoria politica, civile o morale che la sconfitta militare ha significato per noi. (…) tutto il suo lavoro rivela che Lei è sempre rimasto estraneo agli ambienti antifascisti, durante i vent’anni del regime. (…) Lei è il tipico assente.»

Dura risposta. Altrettanto dura fu la risposta di Satta: «Mi consenta (…) di mandarLe il mio discorso inaugurale dell’Università di Trieste, non per la pubblicazione, ma per mostrarLe che lo stesso bisogno di sincerità e di onestà che ha ispirato il “De Profundis”, ha spinto il “tipico assente”, il “catastrofico pessimista”, lo “estraneo agli ambienti antifascisti”, come Ella ama pensarmi, ad assumere una responsabilità e occupare un ruolo da cui gli italiani attivi e ottimisti si terrebbero oggi prudentemente lontani».

Errori e sviste. La storia complessiva di Satta e i riconoscimenti da lui ottenuti per aver accettato di diventare prorettore dell’ateneo triestino («con il pieno appoggio del Comitato di Liberazione Nazionale cittadino»), mostrano quanto le parole di Mila, benché in certa misura comprensibili considerato che le ferite della guerra erano ancora fresche, fossero ingiuste. Peraltro, neppure in tempi a noi più vicini sono mancati errori e sviste, anche gravi, relativamente al giurista scrittore-isolano e al suo rapporto con il fascismo: nel 2003 Satta viene definito «fascista della prima e dell’ultima ora» a seguito di un clamoroso abbaglio, messo ben in evidenza da Casula, che si deve allo storico Sergio Luzzatto, il quale due anni prima l’aveva etichettato come «vecchia camicia nera».

La Sardegna. Un secondo punto cruciale dell’epistolario è la realizzazione, voluta con forza da Calamandrei, di un numero monografico de “Il Ponte” dedicato alla Sardegna, che vide poi la luce nel settembre-ottobre del 1951 e nel cui indice è presente un pezzo di Satta a lungo sollecitato, “Spirito religioso dei Sardi”. Dopo aver accettato l’impegno Satta aveva provato a spiegare le ragioni dei suoi impedimenti («Sono in uno stato di totale esaurimento (…). Sono dolente di doverti dare questa notizia: ma sto proprio male»), ma l’affettuosa insistenza dall’amico e collega ebbe la meglio. Interessante un paio di lettere che la Guiso e Casula hanno deciso di includere nel volume, inviate da Calamandrei ad Arnaldo Satta Branca, storico direttore de La Nuova Sardegna, che certificano il fermento che precedette l’uscita della rivista e l’ampio coinvolgimento di intellettuali e artisti sardi. Interessanti sono anche i diversi contributi di autori, studiosi e uomini politici – citiamo tra gli altri Riccardo Bacchelli, Marino Moretti, Francesco Cossiga – che arricchiscono il volume e permettono di delineare al meglio il profilo sia di Satta sia di Calamandrei, e della loro lunga, profonda amicizia.

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