La Nuova Sardegna

«Non chiudete la porta all’Afghanistan»

«Non chiudete la porta all’Afghanistan»

Enaiatollah Akbari parla della situazione del suo Paese e del nuovo libro, “Storia di un figlio. Andata e ritorno” 

10 ottobre 2021
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“Storia di un figlio. Andata e ritorno” è l'ultimo libro che Enaiatollah Akbari ha scritto con Fabio Geda. Il primo è “Nel mare ci sono i coccodrilli”, un best seller. Finalista al premio Salvatore Cambosu il nuovo libro racconta l'Afghanistan contemporaneo attraverso il rapporto di lontananza e vicinanza con la famiglia ritrovata, vissuto a distanza coltivando nuove speranze di futuro. Due libri di terribile attualità, come accade quando le storie aiutano a capire il mondo. Se poi lo sguardo è quello di un ragazzo abbandonato dalla propria madre in Pakistan perché sfuggisse ai talebani, vent'anni fa, e che ora che si è laureato a Torino allora in quello sguardo lucido, asciutto, sempre aggrappato al futuro con disincanto e ironia si trova l'attualità, la vita e le infinite possibilità che il buio della storia nasconde e, improvvisamente, illumina allo sguardo di chi legge.

I suoi libri raccontano una storia tornata di prepotentemente di attualità perché ci aiutano a capire il dramma afghano dall’interno… Se lo aspettava?

«Non ho mai perso il contatto con l'Afghanistan, nonostante la distanza i contatti con i migranti e quelli che incontravo per lavoro, i miei parenti lì. Avrei voluto fare filosofia ma ho studiato diritto internazionale per la cooperazione e lo sviluppo con la speranza di tornare in Afghanistan. Dal 2014 vedevo la nuova generazione che per la prima volta stava assaggiando la democrazia. Il presidente al potere, prima dei talebani, è stato eletto grazie ai brogli elettorali ma la comunità internazionale ha sostenuto questo governo. Quindi me lo aspettavo, l’Afghanistan è diventato il secondo paese per l'emigrazione, il secondo paese più corrotto al mondo e con gli accordi di Doa ho capito che era solo questione di tempo. In questo periodo, nonostante americani e alleati, gli attacchi kamikaze non si sono mai fermati, i genitori hanno sempre avuto paura, ma nel momento in cui i talebani prendono il controllo di tutto il paese ogni speranza sparisce e l’unica salvezza è fuori dall’Afghanista»

Che notizie arrivano dalla sua terra?

«La situazione è drammatica. Sui media vediamo solo un pezzo di Kabul, i talebani guidano i giornalisti: ogni talebano che appare davanti alle telecamere non è uno qualunque, ma è stato preparato per quello. Il 99% dei talebani sa solo sparare e ammazzare, per questo sono stati arruolati e addestrati per anni e anni. Se prima il nemico da battere era l’America, adesso chiunque sia favorevole alla democrazia viene perseguitato».

“Nel mare ci sono i coccodrilli” si apre con la chiusura della scuola e l'uccisione del maestro. Sembra che nulla sia cambiato...

«Spero che sia utile il libro, scritto ormai tempo fa sulla storia che ho vissuto molti anni fa. Ma quel libro non ha il tempo, come l’Afghanistan non ha il tempo. Vent’anni fa hanno ucciso il mio maestro, qualche giorno fa hanno ucciso il preside di una scuola femminile che si è rifiutato di chiudere la scuola dicendo che quelle ragazze avevano progetti, avevano studiato. Diceva “Noi siamo diversi, non pensiamo che il sapere delle donne sia impurità o eresia”. Ed è stato fucilato».

Ma una resistenza delle donne l'abbiamo vista...

«All’inizio è stato commovente, hanno risvegliato in me la speranza: quelle quattro donne che vedevo manifestare disarmate davanti ai talebani. Sanno benissimo che quando tornano a casa suonerà un’altra musica per loro e spariranno in poco tempo. D’altra parte hanno fatto una legge per cui il contenuto di ogni manifestazione deve essere approvato dal ministero. Oggi c’è tanta paura ma la situazione scoppierà. I leader sono fuggiti, arriverà la fame, arriverà il desiderio della mia generazione. Ciò che l’Occidente ha lasciato in questi venti anni è l’istruzione: i nostri genitori non avevano il collegamento col resto del mondo, la mia generazione ha potuto avere consapevolezza dei principi e dei diritti dell’essere umano. È il frutto dell'istruzione. Quelli che sono stati ingannati, le vere vittime, sono i ragazzi della mia generazione perché potevamo essere in contatto con il resto del mondo e cambiare qualcosa. Ma il tempo non ci è stato dato».

La foto dell’ambasciatore italiano che effetto le ha fatto?

«L’ambasciatore italiano che salva il bambino ha più o meno la mia età. Non è un ambasciatore in giacca e cravatta che sa tanta teoria e poi alla prima occasione se ne va Quell'ambasciatore sapeva prevedere il futuro ma nonostante tutto era lì. L'Italia ha fatto cose importanti specialmente nella città di Herat, ho le testimonianze di quanti vivono lì e sono soddisfatti. Le responsabilità di quanto accaduto non sono del contadino afghano e neanche dell'esercito. La colpa dell'occidente è di aver imposto un presidente che non era scelto dal popolo che conosceva il suo passato, era corrotto. Le elezioni del 2014 sono durate un anno. La gente credeva nella democrazia e ha votato a rischio di perdere la vita o un braccio, dal momento che i talebani ostacolavano chiunque fosse andato a votare. John Kerry ha annunciato il vincitore, ci ha imposto quel governo e ha scombussolato l'apparato statale da un giorno all'altro. Nel 2018 le elezioni sono state un imbroglio ma i risultati elettorali erano sotto l’occhio delle Nazioni Unite. Il problema è che viene riconosciuto un governo fantoccio e l’Occidente di questo è colpevole. Non sostengo l'idea che si dovesse stare lì, capisco la frustrazione di vivere in una caserma straniera a Kandahar, uscire sempre armati, vivere nella paura degli attentati per vent’anni; anche economicamente è un costo. Ma coi brogli elettorali la gente ha già perso la fiducia e lo dimostra il fatto che la popolazione e l’esercito non hanno opposto resistenza».

Gli afghani in fuga hanno diritto all’asilo politico. Lei racconta quale atto di coraggio le sia costato ottenerlo. Cosa si può fare da qui?

«Tante cose. Ci si può informare, andare a fondo, combattere i pregiudizi. L’immagine del bambino che la mamma lancia verso il soldato fa di noi i profughi preferiti nel mondo ma questo finirà e a breve quella scena verrà dimenticata. Possiamo sostenere Emergency, l’unica ONG che in Afghanistan in questo momento sta salvando la situazione. Nell’integrazione tutti abbiamo un ruolo per dare speranza a chi ha bisogno di un abbraccio, di un sorriso: sembra poco ma conta tanto. Possiamo prendere i ragazzi in affidamento, perché se cominci da zero è difficile. Essere accompagnati con l'amicizia, col sorriso, vivendo a contatto, ridendo insieme, condividendo la tristezza finché piano piano la tristezza andrà via, ma se la porta resta chiusa queste persone non troveranno mai la pace. Nessuno è così stupido da rifiutare il bene».

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