La Nuova Sardegna

MAURIZIO DE GIOVANNI 

«I miei bambini angeli gridano nella Napoli nera»

«I miei bambini angeli gridano nella Napoli nera»

S’intitola “Angeli” il nuovo episodio della serie letteraria “I bastardi di Pizzofalcone” in uscita martedì 19 ottobre per Einaudi (18,50 euro). Questa volta la squadra di poliziotti creata da...

17 ottobre 2021
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S’intitola “Angeli” il nuovo episodio della serie letteraria “I bastardi di Pizzofalcone” in uscita martedì 19 ottobre per Einaudi (18,50 euro). Questa volta la squadra di poliziotti creata da Maurizio de Giovanni deve indagare sull’omicidio di un abile meccanico napoletano. Aveva mani magiche, Nando Iaccarino, capaci di mettere a punto qualsiasi motore. Fuori della sua officina, linda e ordinata più di una stanza d’ospedale, facevano la fila gli appassionati di auto e moto d’epoca, perché quello che gli altri avrebbero buttato, lui lo riparava, sempre. Sapeva prendersi cura delle cose, Nando. Ma qualcuno lo ha ucciso, e ora tocca ai Bastardi di Pizzofalcone scoprire chi è stato. Anche se ciascuno di loro sta vivendo un momento difficile, anche se ognuno ha un grosso fardello da portare, fatto di angosce, di dolori e di segreti. Anche se i piani alti della questura, che proprio non li tollerano, sperano ancora di vederli cadere.

Da sempre nella sua produzione letteraria la tematica dell’infanzia è stata centrale, basti pensare al piccolo Tettè de “Il giorno dei morti”. Negli ultimi romanzi, anche nelle sue tre diverse serie, ha dato grande attenzione alla questione dell’innocenza, e pure in “Angeli” una delle linee di trama coinvolge dei bambini.

«Il romanzo nero, come è stato più volte rilevato, è prima di tutto un romanzo sociale: serve a scandagliare la società, a osservarne in filigrana gli aspetti più profondi attraverso il crimine, che purtroppo è una caratteristica insopprimibile di ogni aggregato umano. È indiscutibile che la vita oggi sia un ingranaggio che va a una velocità enorme, stritolando in un egocentrismo imperante gli strati più deboli e fragili. I bambini, gli anziani, gli invalidi, le donne sono vittime non ignorabili. La loro incapacità di urlare una condizione spesso insopportabile non deve farci dimenticare che la violenza assume forme e modalità sotterranee e non evidenti. Il racconto cosiddetto di genere può avere questa funzione».

C’è un passo molto bello nel romanzo in cui Giorgio Pisanelli “legge” il suo quartiere. Quasi che il quartiere fosse un essere multiforme dotato di vita e coscienza che va ascoltato.

«Come ho più volte affermato, la mia narrativa è assolutamente connessa alla città. In ogni mio testo non faccio altro che prendere le storie dalla strada e portarle, secondo la mia parziale visione, sulle pagine. Questo è vero sia per il passato, nel caso di Ricciardi, sia per il presente nelle serie di Mina e appunto dei Bastardi. Napoli è un groviglio di vicoli e scalinate, di piazzette e di stradine dalle quali si osserva un panorama mozzafiato, fatto di mare e di cielo ma anche di sorrisi e lacrime. È la parte più bella del lavoro di scrivere, quella di interpretarne la complessità e le contraddizioni. Lo faccio attraverso i miei personaggi, ma con i miei occhi. E ne sono sempre molto felice».

Nella serie letteraria dei “Bastardi” è molto evidente come ogni delitto abbia un riflesso anche sulle vite personali dei poliziotti della squadra. È come se l’indagine fosse sempre a doppio senso: verte sui potenziali colpevoli ma al tempo stesso volge anche sugli investigatori, come se nessuno fosse immune dalla colpa.

«Parto sempre dal titolo, è la prima componente essenziale: molti scrittori lo concepiscono alla fine, o addirittura lasciano che a trovarlo sia l’editor. Io no. Per me il titolo è la tinta madre, il colore di fondo che farà da contrappunto a tutta la narrazione. Per i Bastardi, il titolo è sempre una sola parola, perentoria e inequivocabile. Su di essa e attorno a essa si svolgeranno non solo la trama e l’eventuale sotto trama, ma verranno declinate le storie di ogni singolo personaggio. Una regola alla quale mi attengo sin dall’inizio della serie, se vogliamo la caratteristica particolare di Pizzofalcone. E le lesioni, le fratture di cui i Bastardi sono portatori, lasceranno vedere come ognuno sia toccato dal delitto sul quale indaga e ne rimanga inevitabilmente impregnato anche nell’esistenza personale».

Questo gruppo di poliziotti è amatissimo sia nella veste letteraria sia in quella televisiva. L’uno sostanzia l’altra o li vive come due universi paralleli e quindi diversi?

«I linguaggi sono diversi, e le necessità narrative anche. In una serie televisiva le linee cosiddette orizzontali, quelle cioè che riguardano i personaggi e la loro vita personale, devono avere forzatamente uno sviluppo costante e coerente di puntata in puntata, perché lo spettatore deve seguirne la trama con cadenza settimanale. Nei romanzi, che arrivano una volta l’anno, questo non è necessario e l’autore può focalizzare l’attenzione su uno o l’altro, accendere il riflettore della sua attenzione non necessariamente sullo stesso di cui, nel precedente episodio, ha raccontato con maggiore approfondimento. Questo diversifica forzatamente le due linee narrative, cosa che a me piace molto. I romanzi, insomma, hanno meno “regole” da rispettare, per mia fortuna».

L’Università di Napoli Federico II le ha conferito una laurea honoris causa in Filologia moderna. Nel farle i complimenti, mi chiedo quando per la prima volta ha avuto contezza del suo essere un narratore e quanto questo riconoscimento premi il suo innato talento.

«La ringrazio per le bellissime parole, ma io francamente non credo di possedere un particolare talento. Credo invece di amare profondamente la mia città, e non per questo di non saperne riconoscere le difficoltà o le brutture di cui è portatrice. Raccontare storie è il mio modo di osservare, e di provare a proporre alcune angolazioni. È quello che fanno tutti gli scrittori. Io ho solo avuto la fortuna di “incontrare” personaggi interessanti, che mi fanno da veicolo per esplorare il territorio sia fisicamente inteso che socialmente; e di essere nato in un luogo che è sempre narrativo e lo è sempre stato, in ogni momento della sua storia millenaria».

Palma, Lojacono, Buffardi, Romano, Aragona… Anche in questo episodio tutti gli uomini della serie appaiono fragili, deboli, spesso indecisi e inconcludenti, quando le donne, di contro, hanno un ruolo determinante e quasi sempre sono loro a prendere le decisioni e a imprimere una svolta.

«Credo che la nostra tipologia di narrativa abbia l’obbligo del realismo, per consentire l’immedesimazione più veloce e più profonda possibile del lettore; e credo che la realtà sia appunto così, un mondo in cui le donne sono purtroppo obbligate a essere forti e determinate, e in cui gli uomini siano sempre più fragili e inconsapevoli. I riflessi di queste condizioni si riverberano forzatamente sui rapporti, sentimentali e lavorativi, familiari e sociali che siano. Questo non vuol dire, ovviamente, che le donne siano personaggi sempre positivi e gli uomini negativi: il dubbio, la fragilità, l’indecisione possono anche essere segno di sensibilità e di partecipazione emotiva, così come l’attitudine alla decisione e la visione manichea della vita possono portare a tragici errori. Tutto da leggere, insomma».

Nel romanzo la figura degli angeli è il fil rouge che lega tutte le sottotrame e i personaggi della storia. Lei crede negli angeli e se potesse parlare col proprio angelo custode quale domanda gli o le farebbe?

«Io ho un angelo custode, e ci parlo costantemente. Si tratta di mia madre, che è andata via un anno fa e che da allora non mi ha lasciato un solo istante. Le chiedo sempre di continuare a raccontarmi storie come ha sempre fatto, perché è da lei che mi viene questa capacità, anche se era molto più brava di me. Mi ha promesso che lo farà. Sono certo che manterrà. È una di parola. In cambio, le dedicherò ogni libro che scriverò. Per sempre».



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