La Nuova Sardegna

Enrico Vanzina: «Quel western di Sergio Leone ambientato in Sardegna che non ci hanno fatto girare»

Alessandro Pirina
Enrico Vanzina: «Quel western di Sergio Leone ambientato in Sardegna che non ci hanno fatto girare»

Lo sceneggiatore e regista racconta con rimpianto un progetto mai realizzato e ripercorre 40 anni di lavoro che hanno fatto la storia del cinema italiano

08 dicembre 2021
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I Vanzina e la Sardegna, un amore che dura da decenni. Nell’isola la premiata ditta della commedia italiana ha girato alcuni tra i suoi film più famosi, ha trasformato la Gallura in set per Gigi Proietti, Daryl Hannah e Carol Alt - solo per citare alcune delle star -. E sempre in Sardegna i Vanzina avrebbero voluto girare quello che è il loro unico rimpianto cinematografico, ovvero l’ultimo soggetto di Sergio Leone, “Colt”, poi diventata una serie tv firmata Stefano Sollima. A raccontarlo è Enrico Vanzina, che venerdì sarà a Cagliari ospite del Premio Alziator.

Suo fratello Carlo anni fa raccontò della sua prima vacanza con Marco Risi e Christian De Sica in Costa Smeralda. Qual è il suo primo ricordo dell’isola?

«Io venni un paio d’anni prima di lui. Era il 1964. Andai con amici a pescare a Porto Rotondo: non c’era niente. Dormivamo nell’entroterra. Rimanemmo una settimana e mi sembrò di essere nel posto più bello del mondo. La Sardegna mi riempì il cuore. Tornai anni dopo, all’indomani dello sbarco dell’uomo sulla luna. Partimmo da Sanremo e arrivammo a Liscia di Vacca. Ma mentre mio fratello divenne stanziale in Sardegna, io sono venuto molto meno, visto che andavo a Capri. Ma ricordo un viaggio strepitoso nel sud che mi fece capire la bellezza di questa terra. A Chia salì sulla nostra barca Gigi Riva, un altro ancora più innamorato dell’isola».

Figli di Steno, il cinema era nel vostro dna: avete mai pensato ad altre strade?

«Era talmente nel dna che Carlo c’è cascato con tutte le scarpe. Io ci ho messo di più, volevo fare lo scrittore. Ma non era scontato che avremmo fatto cinema. Mio padre e mia madre non volevano, lo consideravano un lavoro precario. Poi quando hanno visto che c’era il talento hanno mollato. Anche se io iniziai come musicista da pianobar».

Come nasce l’amore di suo padre per la commedia?

«Da piccolo stava sul lago Maggiore, ad Arona, e aveva un compagno di scuola a cui spesso proponeva di andare al cinema. E quello chiedeva: “Fa ridere?”. Altrimenti non ci andava. Questa cosa lo aveva impressionato molto perché aveva capito che parte del pubblico voleva che il cinema regalasse divertimento. Il marketing giovanile di quell’amico lo influenzò parecchio».

Quando nasce la premiata ditta Vanzina?

«Io ero aiuto regista in un film con Renato Pozzetto, che chiese a me e a Carlo di lavorare insieme. Presentai la mia prima sceneggiatura al produttore Lombardo, che non rise mai, con Pozzetto presente. Allora ci inventammo un altro film, “Luna di miele in tre”. Era una comicità americana, alla Neil Simon. Fu un errore, ma a quel punto capimmo cosa dovevamo fare».

Il vostro rapporto sul set?

«Sul set ci stava soprattutto Carlo, io non sono mai stato interessato. Ora ci sto di più perché non c’è più lui. Mi dedicavo alla sceneggiatura ed ero molto presente in fase di montaggio».

Siete considerati i re della commedia, ma siete tra i pochi ad avere sperimentato altri generi: dal giallo al film in costume. Scommesse vinte?

«Siamo rimasti intrappolati nella commedia, ma abbiamo cercato di smarcarci. E in alcuni casi con successo. Penso a “Sotto il vestito niente”, venduto in tutto il mondo. Altri tentativi diversi non hanno avuto grande riscontro al botteghino. Sia “La partita” con Faye Dunaway che “Tre colonne in cronaca” con Gian Maria Volonté e Sergio Castellitto. Erano film bellissimi, ma il pubblico, abituato alle nostre commedie, si insospettiva se proponevamo altri generi».

Oltre 100 film: qual è quello o quelli a cui è più legato?

«Avendo avuto anche insuccessi voglio bene pure a quelli. Forse il film che mostra la nostra linea stilistica - se esiste - è “Il cielo in una stanza”. Era anche il preferito di Carlo. Ed è quello in cui abbiamo lanciato Elio Germano e Gabriele Mainetti. E poi “Caccia al tesoro”: è l’ultimo film di Carlo, ce l’ho nel cuore».

Tante battute dei vostri film sono entrate nel linguaggio comune. Per esempio: “Beh anche questo Natale se lo semo levato dalle palle!” Che effetto fa?

«Quando l’ho scritta mi sono messo a ridere da solo. Non so se abbiamo grandi meriti, ma se uno volesse capire l’Italia degli ultimi 40 anni potrebbe mettere in fila i nostri film e verrebbe fuori un’indagine antropologica e sociologica precisa. Abbiamo cercato di fotografare l’Italia, anche attraverso il linguaggio, ma mai ho scritto una battuta perché rimanesse nel tempo».

Per anni la critica vi ha bistrattato: come vivevate le accuse di volgarità?

«Fanno parte del gioco. Siamo figli di Steno che doveva sentirsi dire che i film con Totò erano filmetti di serie B. Il tempo è galantuomo ed è il critico migliore. Certe volte le critiche erano anche giuste, siamo andati più sulla quantità che sulla qualità. Ma oggi dicono che “Sapore di mare” è un capolavoro. Ai tempi manco una nomination».

Calà, De Sica, Proietti, Boldi, Greggio, Abatantuono: l’attore più vanziniano?

«Direi Christian perché siamo amici da ragazzi, siamo cresciuti in un mondo simile. Ma alla lunga posso dire che ho una venerazione per due: Ricky Memphis, un attore perfetto che non sbaglia mai, e Gigi Proietti, con cui ci capivamo al volo».

All’appello mancano Verdone, Troisi, Nuti, Benigni: ci avete mai provato?

«È stato un problema del cinema di allora. I migliori attori si sono promossi registi, sceneggiatori, talvolta anche musicisti. È stato un danno per il cinema, ma allo stesso tempo ci ha permesso di promuovere altri che mai sarebbero stati protagonisti. D’altronde, i caratteristi sono sempre stati la forza del cinema italiano. Da Tina Pica in “Pane amore” a Tiberio Murgia in “I soliti ignoti”. Mettere insieme tanti caratteristi ci ha ripagati».

I Vanzina e la Sardegna: da “Piccolo grande amore” a “Olè”, da “Selvaggi” a “Un’estate al mare”.

«Carlo aveva un rapporto talmente forte con l’isola che la usava per qualsiasi cosa. In “Selvaggi” la Sardegna diventò i Caraibi, in altri film il Messico. È un set naturale straordinario, un luogo in cui si può fare tutto. Dal film romantico a quello vacanziero, fino al western».

Il sogno di suo fratello era girare proprio un film western nell’isola. Le piacerebbe riuscire a esaudirlo?

«Se non lo abbiamo fatto è perché non ce l’hanno fatto fare. Eppure ne avevamo avuto la possibilità. Il soggetto era “Colt”, l’ultimo di Sergio Leone, e una parte l’avremmo dovuta girare proprio in Sardegna. Non lo abbiamo fatto, perché quando si parla di western tutti hanno paura. Anni dopo lo ha fatto Stefano Sollima in America. È il nostro unico rimpianto».

Ci sono eredi dei Vanzina?

«Non saprei, ma mi auguro che come noi siamo stati dei piccoli eredi della grande commedia ci sia qualcuno che segua le nostre orme».



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