La Nuova Sardegna

Intervista con Neri Marcorè: «Non amo i social, la politica di oggi non mi rappresenta»

di Alessandro Pirina
Intervista con Neri Marcorè: «Non amo i social, la politica di oggi non mi rappresenta»

L’attore il 10 giugno all’anteprima di Tavolara. «Più che un festival per me è un luogo del cuore»

01 giugno 2022
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La sua prima volta a Tavolara fu da ospite, come tanti attori e registi che da oltre trent’anni animano l’arena cinematografica più suggestiva del mondo. Ma quell’invito è diventato ben presto qualcosa di più importante. Neri Marcorè è rimasto folgorato da Tavolara, per anni è stato il presentatore di quelle magiche serate sotto le stelle, ma ancora oggi, quando può tra un film e uno spettacolo, cerca di ritagliare almeno una serata per il suo amato festival. E così nel 2020 ha portato l’omaggio a De André, l’anno scorso a Dante, quest’anno tocca a Pasolini. Appuntamento il 10 giugno nella piazzetta di Porto San Paolo per l’anteprima del festival, che invece si terrà dal 13 al 17 luglio. Sul palco Marcorè sarà la voce narrante del cineconcerto del musicista sassarese Luigi Frassetto, “Che cosa sono le nuvole? Pasolini e la musica”.

Cosa è per lei Tavolara?
«È un posto a me molto caro, quasi di famiglia. Se penso a Marco e Augusto Navone, all’amicizia che è nata, alla prima volta che mi hanno invitato e a tutto quello che ne è seguito. Al di là dello splendore del posto, la differenza la fanno i rapporti umani. Quando dopo svariati anni avevo deciso di lasciare il ruolo di intrattenitore, Tavolara è sempre rimasto un luogo del cuore. Con Marco non abbiamo mai smesso di sentirci e ogni pretesto è buono per tornare».

Questa volta sarà protagonista di un cineconcerto su Pasolini. Di cosa si tratta?
«Come per Dante, quando avevamo fatto l’accompagnamento al film sulla Divina commedia, anche quest’anno Marco e Luigi mi hanno proposto una cosa simile legata a Pasolini. Artisticamente io ho frequentato molto Pasolini. In “Eretici e corsari” le sue invettive e la sua poetica venivano giustapposte a Gaber, in “Quello che non ho” feci lo stesso lavoro tra Pasolini e De André. Questa è una cosa diversa, perché tratteremo le canzoni delle colonne sonore dei film».

Pasolini è un autore eterno: quanto sono attuali i suoi testi?
«Quando oggi guardi i suoi film vedi sempre qualcosa di visionario e contemporaneo, ma allo stesso tempo ti accorgi che sono datati e consoni al tempo in cui sono stati creati. Quello che stupisce è che invece non cadranno mai di moda le sue riflessioni amare sulla politica, sulla società, sul consumismo, sulla differenza tra progresso e sviluppo, sui nomi dei colpevoli, sulla mafia che si insinua dappertutto. Quello che Pasolini aveva profetizzato si è rivelato tutto vero. E purtroppo non si nota una inversione di tendenza. È stato un medico che ha saputo indicare la malattia, e la diagnosi accurata, ma non siamo stati in grado di prendere provvedimenti».

Cosa sognava da bambino?
«Sognavo di giocare e fare cose che mi divertivano. Per fortuna ne ho avuto l’opportunità. La mia non era una famiglia agiata ma neanche di quelle in cui i bambini erano costretti a fare scelte diverse. Da questo punto di vista ho avuto la possibilità di scegliere il mio percorso scolastico, ma non guardavo molto avanti. Il mio era un orizzonte a medio termine, al di là del sogno irrealizzabile di diventare tennista. Coltivavo lo studio, il gioco e alcune cose che mi piaceva seguire e fare, come suonare la chitarra e guardare i comici in tv».

La tv è stata il suo trampolino di lancio. Nel cinema la svolta arriva con Pupi Avati: come lo ha conquistato?
«È stato suo fratello Antonio a notarmi alla conduzione di “Per un pugno di libri”. Lo ha detto a Pupi: “abbiamo trovato il nostro protagonista”. Mi chiamano per un colloquio, alla fine Pupi mi fa: “leggi la sceneggiatura, se il ruolo ti piace è tuo”. E io: “non facciamo neanche un provino?”. Ho letto il copione e mi ha conquistato. Ho chiamato Pupi e ho accettato. “Il cuore altrove” ha contato tanto per me, fino ad allora non avevo fatto niente di grosso, è stato il mio primo ruolo da protagonista. Gli devo molto, quello che è arrivato dopo, sia cinema che fiction, è tutto merito di quel film».

Su Raiplay è il “Santone”: com’è stato portare in scena un fenomeno social come Osho?
«Il grande merito è di Federico Palmaroli che ha saputo dare una chiave comica a questo personaggio. La serie parte da quella scintilla e poi si sviluppa in maniera autonoma. Non si potevano riportare in un film quelle che erano solo vignette».

Il suo rapporto con i social?
«Non mi hanno conquistato. Non ne faccio una cosa generazionale, è proprio una questione di indole. Non demonizzo e non critico chi ne fa uso, ma quel mondo non mi appartiene. Non mi va di togliere tempo ad altro per postare storie, neanche per 10 minuti al giorno. Sembra di essere al mercato e mettere la merce sul banco».

Che estate sarà la sua?
«Ho finito di girare un film in due episodi di Massimiliano Bruno ed Edoardo Leo, “I migliori giorni” e “I peggiori giorni”, con Anna Ferzetti, Claudia Pandolfi e Ricky Memphis. Poi, prima delle vacanze nel sudovest della Sardegna, inizierò il nuovo film di Walter Veltroni, “Quando”, tratto dal suo libro».

Nel 2007 accettò la proposta di Veltroni di sostenere il Pd. Oggi Veltroni la dirige in un film. Alla fine è stato l’ex segretario a cambiare mestiere...
«È stato lui a venire nella mia direzione (ride, ndr). La politica è una cosa meravigliosa, ma dipende da chi la interpreta. Gli ultimi anni non ti fanno certo venire voglia di entrare a fare parte di quel mondo lì. I compromessi fanno parte della vita, ma è difficile trovarli tra l’entusiasmo che puoi metterci all’inizio e la messa in pratica, frustrata dai paludosi meandri in cui ti trovi a navigare».
 

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