Renzo Arbore: «Dalla radio al Clarinetto: sì, la vita è tutt’un festival»
Lo showman e Sanremo: 73 anni di musica, incontri e ricordi. «Modugno fu rivoluzionario. Fui l’ultimo a parlare con Tenco»
Di Sanremo, in realtà, ne ha fatto uno solo, sfiorando pure la vittoria - anzi, la leggenda vuole che fu superato da Ramazzotti solo all’ultimo sprint -, ma lui i festival li ha vissuti tutti. Da “Grazie dei fiori” a “Brividi”, da Nilla Pizzi a Mahmood e Blanco. Da spettatore, giornalista, commissario, cantante. E soprattutto da grande appassionato di musica. Renzo Arbore può essere definito a tutti gli effetti un Sanremologo, perché quando si parla di canzoni pochi hanno le sue conoscenze e competenze. A 85 anni il grande showman può essere considerato una biblioteca vivente della musica. Una cassaforte piena di aneddoti, ricordi, incontri.
Arbore, il suo primo Sanremo da spettatore?
«Io, per la verità, avendo una certa età me lo ricordo da ascoltatore. A casa, ragazzini, ci riunivamo nel lettone per ascoltare il festival dalla radio che stava sul comodino di papà. Invece, il primo da spettatore - non ricordo l’anno - non avevamo ancora il televisore a casa, andavo da amici che invece già lo avevano».
Ai tempi cosa era il festival?
«Tutta un’altra cosa. Una soirée per pochi privilegiati frequentatori del Casinò delle feste che ne approfittavano per vedere uno spettacolo dei cantanti più famosi dell’epoca. C’erano Nilla Pizzi, Gino Latilla, Giorgio Consolini, Luciano Tajoli. Ognuno faceva tre o quattro canzoni all’italiana, che dovevano ricordare la fine della guerra».
1958: la sua prima reazione quando sentì “Volare”?
«Fu una cosa straordinaria. Lessi il testo di “Volare” su un giornale di quelli che andavano allora. E ricordo che lo dileggiavano. “Pensate che al festival viene presentata una canzone che si chiama Nel blu dipinto di blu che fa penso che un sogno così non ritorni mai più...”. La deridevano. Ma io quando vidi sul palco, insieme al maestro Semprini, Modugno allargare le braccia e cantare questo brano rivoluzionario capii che il festival era diventato un’altra cosa. Finalmente noi giovani, che avevamo un po’ di puzzetta sotto il naso, cominciammo ad avere rispetto per le canzoni del festival, perché erano più in sintonia con i nostri gusti».
Nel 1964 lei vinse il concorso ed entrò in Rai...
«E la Rai mi mandò a fare le interviste ai cantanti con un registratore mastodontico. Ricordo di avere intervistato Milva e altri artisti con le domande più sciocche del mondo. “Sei emozionato?” e altre cose stupidissime. Modugno mi rispose: “guai se non fossi emozionato, ti devi emozionare ogni volta”».
Che ricordo ha del 1967, l’anno del suicidio di Tenco?
«Fui l’ultimo a chiacchierare con Luigi. Eravamo molto amici. Andai a trovarlo in camerino dopo che aveva cantato Dalida. A lei dissi: “a quale Madonna ti sei ispirata quando hai cantato questa Ciao amore ciao?”. Luigi rideva, ancora non si era verificato il dramma. L’anno dopo, ahimè, fui scelto come selezionatore. Fu un anno di bellissime canzoni. C’era “La voce del silenzio”, vinse Endrigo...».
C’era pure Louis Armstrong.
«Mi ricevette in camerino. Purtroppo non avevo una macchina fotografica come si fa oggi e conservo il suo autografo e basta. Fui io a scegliere la canzone “Mi va di cantare”, Gorni Kramer voleva “Grassa e bella”, ma sinceramente non mi sembrava adatta per il re del jazz».
Quell’anno la commissione selezionatrice di cui faceva parte scartò un capolavoro come “Meraviglioso” di Modugno.
«C’è una leggenda che fui io a bocciare “Meraviglioso”, scritta dal mio caro amico Riccardo Pazzaglia. È un falso. Fu tutta la commissione a non ritenerla idonea perché sconfessava il suicidio di Tenco, sembrava una condanna per chi sceglieva di togliersi la vita. Io ero ancora addoloratissimo per quanto accaduto l’anno prima, io e Boncompagni eravamo tra i pochi amici romani di Luigi, ci frequentavamo. La tragedia aveva suscitato enorme clamore e la commissione, all’unanimità, decise di non accogliere quel testo».
Anni ’70, la crisi: il festival ha rischiato di chiudere?
«Le scelte dei discografici, lo snobismo di molti lo avevano ridotto a una-due serate, che nessuno vedeva in tv. Sembrava fosse arrivato alla fine. Il grande recuperatore fu Aragozzini, che riportò l’orchestra, gli stranieri come Ray Charles. Anche se non posso dimenticare Ravera che accettò la mia canzone in gara».
Siamo nel 1986 e il suo Clarinetto arriva secondo: come nasce la sua presenza a Sanremo?
«Ravera mi chiedeva sempre di presentare il festival, un giorno gli dissi: “piuttosto vengo a cantare”. E lui: “magari”. Allora con Claudio Mattone in pochi minuti scrissi “Il clarinetto”».
La solita leggenda dice che in realtà il vincitore fu lei e non Eros Ramazzotti.
«Così si dice, ma sono cose che sfuggono anche a me. Di certo ci fu una bella rincorsa, avevo quasi vinto, poi andai in sala stampa e tutti i colleghi giornalisti mi guardavano storto. Lì capii che non accettavano che io vincessi su un giovane».
Il suo podio di Sanremo?
«Naturalmente “Volare”, Poi “E se domani”, che ancora oggi tutti fanno ai provini. E “Almeno tu nell’universo”: un capolavoro. Ma anche “Ancora” di De Crescenzo e “Gesù bambino” di Lucio Dalla».
Guarderà il festival?
«Certo, è diventato il nuovo Carnevale di Rio. Se ne parla da mesi, non si può mancare. E poi Amadeus è bravissimo sia come direttore artistico che come conduttore, perché regista di tutto quello che succede sul palco. Deve tenere a bada interpreti giovanissimi e vecchissimi, star che scendono dalle scale, gente che lancia messaggi. È una cosa complicata, ma Amadeus, anche grazie a Fiorello con la sua ironia, è bravissimo a gestirla. Insomma, noi giovani degli anni ’50 che snobbavamo il festival, oggi che siamo vecchi degli anni ’50 non lo snobbiamo più».