Ninni Bruschetta: «Viviamo un’epoca poco gentile: il potere trasforma le persone»
L’attore debutta al Massimo di Cagliari con “Mille”
Vietato essere gentili. L’educazione non fa parte del mondo in cui vive Pietro Marconi. O meglio lui è un uomo cortese, garbato, civile, ma queste sue qualità non sono considerate tali. Questo mondo paradossale è lo scenario di “Mille”, lo spettacolo firmato da Andrea Muzzi che debutterà al Teatro Massimo di Cagliari in prima nazionale dal 15 al 19 febbraio sotto le insegne del Cedac. In scena, affiancato da Annagaia Marchioro, è Ninni Bruschetta, attore messinese che riesce a farsi apprezzare indistintamente al cinema e in televisione. E ovviamente anche a teatro.
Bruschetta, “Mille” è uno scontro tra burocrazia e gentilezza. Può essere definito uno spettacolo figlio dei nostri tempi?
«La cosa più divertente è che è ambientato in un futuro non troppo lontano, ma in realtà è una rappresentazione nel futuro di una cosa che esiste già e che ogni giorno peggiora, con la gentilezza che cede il passo alla prevaricazione. Basta vedere la situazione internazionale di cui siamo spettatori. “Mille” è una storia tipica del teatro, ma l’originalità sta in un interrogatorio divertente in cui questo personaggio cerca di collaborare con questa ufficiale per riuscire a essere volgare, perché lui non ce la fa. Lui è uno che viene multato perché non ha reagito agli insulti di un automobilista...».
Qual è la genesi di “Mille”?
«È un testo originale di Andrea Muzzi che Marcella Crivellenti di Bam Teatro ha opzionato e dunque siamo stati chiamati io e Annachiara. Una produzione di quelle normali: il testo piace al produttore e così via».
Nella sua vita ha incontrato più Pietro o più Costanza?
«Il mondo è pieno di persone gentili e perbene, da cui bisogna imparare l’umiltà, quella vera che serve alla vita. Se sei gentile le cose vanno meglio. I problemi derivano dalla misantropia, dalla misoginia, dalle cose negative. Ma di Costanza nella vita ne ho incontrate talmente tante che non basterebbe l’intero giornale. E non parlo di maleducazione, ma di gestione del potere. Ho lavorato moltissimo nelle istituzioni e continuo a vedere come la gestione del potere sia errata in sé, come diventi troppo spesso esercizio del potere. A me dicevano: “quando sei diventato direttore dei teatri non sei cambiato”. Ma perché sarei dovuto cambiare, cosa mi veniva per diventare più stronzo? Ma purtroppo questo accade. Ho visto tante persone amiche trasformate dal potere. Anche solo per il fatto che le chiami e non ti rispondono al telefono, o magari ti richiamano una settimana dopo. Cosa puoi avere di così importante da non avere il tempo per un messaggio?».
Franca Valeri diceva: la rivoluzione degli educati ci salverà. Lei come la pensa?
«È un po’ come dire che il cristianesimo, con ama il tuo nemico, avrebbe potuto salvare il mondo. Purtroppo non si può fare, neanche Gandhi ci è riuscito. Perché la rivoluzione non si può fare senza sangue. Lo dico, avendo sempre avuto simpatia per il pensiero rivoluzionario, ma senza sangue non ci sono rivoluzioni».
È più maleducata la televisione o il cinema?
«Sono educazioni e maleducazioni diverse. La percentuale di educazione è minima, mentre la maleducazione la trovi in forme diverse e ovunque. Io, per esempio, contesto l’educazione alimentare dei teatranti. Mangiano dopo mezzanotte, sempre nei peggiori ristoranti d’Italia, vogliono pagare poco e mangiare assai».
Sul set è più difficile Paolo Sorrentino o Woody Allen?
«Come tutti i grandi, sono uno più facile dell’altro. Basta fare quello che ti dicono loro. Quando ho lavorato con Paolo era giovane - ha dieci anni meno di me - ma già allora quando parlava mi accorgevo subito che diceva cose giuste e aveva idee chiarissime. Non è che gli riconosci autorità, lui la esercita. Quanto a Woody Allen: fantastico, meraviglioso. Io ero sul set con Riccardo Scamarcio e ci disse: “non badate al testo, improvvisate”. A ogni ciak, al di là della riuscita, diceva: “everything fine” (tutto bene, ndr). Ci caricava».
Duccio Patanè in “Boris”: che effetto fa fare parte di uno dei più grandi prodotti italiani degli ultimi 20 anni?
«Avere incontrato un gruppo di ragazzi geniali che mi hanno fatto fare un provino e hanno riconosciuto che dovessi fare quel personaggio è stato un grande colpo di fortuna ma anche un grande premio. Quando ho letto la sceneggiatura avrei dovuto fare un’altra cosa in cui avrei lavorato la metà e guadagnato il doppio, ma non ho avuto dubbi. Solo un pazzo incompetente si farebbe fatto scappare una cosa del genere».
A Carloforte ha girato “L’isola di Pietro” con Morandi: che ricordi ha?
«Gianni è una persona pazzesca, ma lui non sa che oltre a essere di una dolcezza e disponibilità uniche, grazie a lui dopo 33 anni - ai tempi erano 33, oggi qualcuno in più - di carriera ho ricevuto la prima telefonata di mia zia Teresa. “Hai sentito cosa ha detto Morandi in tv? Che lui non è un attore ma un cantante. Gli attori sono Cesare Bocci e Ninni Bruschetta”. A Morandi devo tutto: senza di lui avrei finito la mia carriera senza ricevere una telefonata di zia Teresa».