La Nuova Sardegna

L'intervista

Antonio Caprarica: «Il mio primo scoop grazie a una spia Kgb. Dopo la morte di Elisabetta la monarchia è più fragile»

di Alessandro Pirina
Antonio Caprarica: «Il mio primo scoop grazie a una spia Kgb. Dopo la morte di Elisabetta la monarchia è più fragile»

Lo storico corrispondente Rai si racconta: «Non volevo fare il giornalista, scrissi un articolo per caso e non ho più smesso»

10 maggio 2024
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È la voce dell’Italia dal mondo. Gerusalemme, Kabul, Il Cairo, Mosca, Parigi, ma è soprattutto a Londra che Antonio Caprarica ha legato la sua immagine, e ancora oggi quando c’è da commentare qualcosa che riguarda Buckingham Palace o Downing Street le tv italiane si rivolgono a lui. Ed è ancora al Regno Unito che lo storico corrispondente Rai ha dedicato il suo ultimo libro, “La fine dell’Inghilterra. Un Paese smarrito, un trono vacillante”, edito da Sperling & Kupfer, in uscita il 21 maggio.

Caprarica, la prima cosa che ha scritto nella sua vita?

«Il primo articolo è come il primo bacio: non si può dimenticare. Avevo 19 anni e scrissi sul Mondo Nuovo un pezzo sul formalismo rosso di Sklovskij».

Lei voleva fare il giornalista?

«No, ma fin da piccolo ho sempre avuto un’enorme curiosità. E ho sempre voluto scrivere. A 8 anni provai a buttare giù il mio primo libro: una biografia del generale De Gaulle. Io mi sono laureato in filosofia, il mio obiettivo era la ricerca epistemologica».

Come arriva al giornalismo?

«Da quel primo articolo cominciai a scrivere per le pagine culturali di Mondo Nuovo, poi mi chiesero di entrare in redazione. Avevo 20-21 anni, ero uno studente-lavoratore. La mia prima grande inchiesta fu tra i braccianti di Cerignola in lotta. Ero di sinistra già da ragazzo...».

Cosa significava ai tempi essere comunista?

«Stare dalla parte degli ultimi, credere nell’uguaglianza, anche se a giudicare con il senno di poi l’uguaglianza pesava più della libertà. Ovviamente essere comunista italiano non voleva dire essere comunista sovietico, per quanto l’Urss di quegli anni rappresentasse ancora un valore: era il Paese che aveva realizzato per primo il socialismo. Anche se noi non avevamo idea di che tipo di socialismo fosse. Quando cominciai a capirlo ruppi col Pci. Ma in realtà già nel 1976 lo stesso Enrico Berlinguer aveva preso le distanze da Mosca».

Oggi come si definisce?

«Un liberal socialista, o meglio un liberal riformista: senza la cornice delle libertà politiche non c’è uguaglianza che tenga».

Dall’Unità alla Rai.

«L’arrivo in Rai fa parte di quel processo di distacco della mia giovinezza. Il direttore, Gerardo Chiaromonte, cercò di trattenermi, ma avevo necessità di cimentarmi in qualcosa di diverso. Erano i tempi della famosa lottizzazione e ricordo ancora il primo incontro con l’allora direttore generale Rai, Biagio Agnes. Mi disse: “con te ci guadagno, prendo un comunista e uno bravo”. Non gli dissi che non ero più comunista: prese solo uno bravo».

Com’era quella Rai?

«Il direttore era Nuccio Fava, c’erano Frajese, Volcic, Citterich, Falaschi. I ragazzini di bottega eravamo io, Mentana, Mimun, Di Giannantonio, Mollica. Tutti personaggi mitici del giornalismo. Nuccio mi spedì in cronaca, poi subito agli esteri».

Il primo scoop?

«Riuscii ad andare in Afghanistan, dove nessuno poteva arrivare senza passare dalla parte dei mujaheddin. Mi tornò utile essere stato comunista. Grazie all’aiuto di una spia del Kgb riuscii a imbarcarmi sul volo Mosca-Kabul insieme al mio cameraman, Franco Stampacchia, e poi su una colonna di carri armati sovietici. Facemmo 700 chilometri da Jalalabad a Termez, in Uzbekistan. Il servizio lo vendemmo a tutte le tv europee. Conservo ancora un biglietto di Frajese che appese nella bacheca del Tg1: “sono un puntiglioso, ma so riconoscere un giornalista: Caprarica non lo conosco ma è un giornalista di razza”».

Dal Medio Oriente a Mosca, tappa fondamentale anche della sua vita privata.

«A Mosca non volevo andare. Adoravo il Medio Oriente, mi appassionava l’Islam, amavo Il Cairo piena di luce. Mosca era grigia. Fu Volcic a insistere perché andassi. Lì sono stato testimone di eventi straordinari...».

E ha anche conosciuto sua moglie Iolanta...

«Ero stato invitato a un concerto. Mia moglie fa parte di una delle dinastie musicali russe. Non volevo andare, ma alla fine mi convinsero, la vidi suonare e di colpo mi innamorai. Lei invece ci mise un po’...».

Intervistò Gorbaciov.

«Un uomo affascinante, magnetico. Quando lo intervistai lo avevano deposto da poco. Riconosceva il grande ruolo avuto da Giovanni Paolo II nelle vicende storiche dell’epoca, ma non aveva capito il suo Paese. Mi colpì molto il suo amore per la moglie Raissa, molto simile a quello che provo io per mia moglie».

Perché nell’immaginario collettivo Londra è la città più legata alla sua carriera?

«Come diceva Modugno per avere successo servono tre cose: fortuna, fortuna, fortuna. A Londra arrivai il giorno in cui Tony Blair vinse a valanga le elezioni dopo 18 anni di potere conservatore. Ho assistito al cambiamento di pelle di Londra. Era un mondo leggero, c’erano le Spice girls, una Londra notturna folle...».

Chi era la regina Elisabetta?

«Un monumento di marmo che con la sua semplice presenza copriva la crisi che stava corrodendo il suo Paese e che alla fine è esplosa anche lì. Al funerale ricordo ancora le parole di un cittadino. “Aveva 96 anni”, gli dissi. E lui: “Certo, prima o poi sarebbe dovuto succedere, ma per noi era come il vostro Colosseo. Per noi è caduto il Colosseo”».

Come sta la monarchia dopo la morte della Regina?

«È proprio quello che affronto nel mio nuovo libro. Quello che è successo in questo anno e mezzo di crisi politica, economica e sociale del Paese ha evidenziato la fragilità dell’istituzione monarchica. La presenza di Elisabetta serviva. Se il re ha il cancro e la futura regina la stessa malattia cominci a capire che questa istituzione così personale e personalizzata ha proprio un fondamento d’argilla».

Ucraina, Medio Oriente, Europee: come vede il futuro?

«L’attuale primo ministro britannico ha detto: siamo passati da un periodo post bellico a uno pre bellico. Io tengo le dita incrociate, ma la memoria del 1914 dovrebbe sempre accompagnarci: quella guerra non la voleva nessuno. I leader di allora furono definiti sonnambuli. Ma lo siamo stati anche noi: abbiamo affidato la difesa agli americani, l’energia ai russi, il benessere dei traffici ai cinesi, senza capire che ci stavamo costruendo una prigione di debolezza. Come si fa a non essere pessimisti se questi problemi vengono totalmente ignorati da una classe dirigente, italiana compresa, che si occupa solo di balneari e tassisti?».

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