La Nuova Sardegna

L’intervista

Pierpaolo Capovilla: «La questione di Gaza ci riguarda tutti»

di Caterina Cossu
Pierpaolo Capovilla: «La questione di Gaza ci riguarda tutti»

Il Teatro degli Orrori sarà ospite al festival Rock and Bol a luglio

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«Sono molto contento di tornare in Sardegna, è una vita che non esco dal Continente, e con l'isola sento molta affinità. Amo l’orgoglio e la coerenza del popolo sardo, anche se ultimamente nessuno sembra essere immune dal dilagare della degenerazione dei nostri tempi». Pierpaolo Capovilla ne è certo.

Non è solo canzone popolare quella del Teatro degli Orrori: è un baluardo contro il capitalismo, stimolo di una lotta che a Bolotana trova il suo palco perfetto. «Sono conquistato dall’idea che il pensiero creativo di canzone continui in chi la riceve. Se le parole suonano nelle corde del cuore di chi ascolta, allora il processo creativo vale più di innumerevoli comizi, sedimenta e continua a cantare nei cuori, nelle coscienze».

Il Teatro degli Orrori arriva nel cuore del Marghine nell’anno in cui Rock and Bol si sdoppia in due giornate e diventa grande, affiancando quest'anno al classico appuntamento metal con gli headliner gli Onslaught, leggendari pionieri del trash metal, una serata di rock alternative d’autore. Parte Giancane sul palco venerdì 25 luglio, poi l’unica data sarda del tour che ha riunito la storica band, annunciato il 14 ottobre dello scorso anno con un post sui social a quattro anni dall'abbandono delle scene pubbliche, per il quale il frontman e voce della band Capovilla torna sui palchi di tutta Italia con il Mai dire mai tour, assieme ai compagni Gionata Mirai alla chitarra, Giulio Ragno Favero al basso e Francesco Valente alla batteria.

Sono passati ormai 16 anni da Refusenik, il brano che racconta degli obiettori di coscienza israeliani che rifiutano di imbracciare le armi contro i palestinesi. «Viviamo oggi un tempo paradigmatico, siamo tutti responsabili di quello che accade a Gaza e del genocidio del popolo gazawi - prende posizione Capovilla -. Non c’è modo per me di essere sereno, cerco di sublimare la mia rabbia dedicandomi a un romanzo, o nella musica, cercando di ritrovare le forze morali e intellettuali per resistere». Perché di questi tempi, allora, la partecipazione all’orrore ci sembrava sempre meno possibile, come avveniva invece per il pubblico del teatro della crudeltà di Antonin Artaud da cui il gruppo prende il nome. «I fatti del 2001 di Genova sono sempre lì, il motto di quei ragazzi, le cui istanze erano incontrovertibilmente giuste e urgenti, era “un mondo migliore e più giusto”. Da lì a oggi il mondo è invece in preda a una catastrofe - argomenta il cantautore -. La visione dominante sulle circostanze storiche porta a una resa collettiva della società umana, dove il singolo se ne frega della fine del mondo, resa incondizionata a forze politiche e sociali belliche. Tutto oggi è macroscopicamente più grande di noi, io posso solo provare a scrivere canzoni».

C’è spazio, dunque, per la speranza? «Una poesia bellissima di Pier Paolo Pasolini, Una luce, dedicata alla madre, dice che “non c’è mai disperazione senza un po’ di speranza”. La disperazione altrimenti sarebbe un abisso. Il pessimismo appartiene alla ragione, l’ottimismo alla realtà»

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