Antonello Grimaldi: «Mi sento più sassarese che sardo, dopo 40 anni ho salutato Roma»
Il regista parla del suo amore per il cinema e per la sua città: «Ho scelto di fare film dopo aver visto una pellicola di Wim Wenders»
«Dopo quarant’anni ho approfittato del Covid e sono ritornato a vivere a Sassari. Mi sono reso conto che avevo vissuto abbastanza a Roma e ho detto: e mo basta. Ritornare a vivere in una città tranquilla è fantastico, se poi è anche la tua città è ancora meglio». Antonello Grimaldi, regista sassarese che ha firmato film come “Caos Calmo”, “Il cielo è sempre più blu”, “Asini” e “Un delitto impossibile”, parla del suo rapporto con la città e il cinema. Un legame che nel 1980 lo ha portato a lasciare tutto per inseguire il suo sogno nella capitale.
Come ha scelto di mettere da parte la laurea in Giurisprudenza per fare cinema?
«C’è proprio un momento preciso: dopo aver visto “Nel corso del tempo” di Wim Wenders al cinema Moderno, in una rassegna dell’Arci. Sono entrato alle quattro del pomeriggio, sono uscito all’una di notte, l’ho visto tre volte di fila. Lì all’uscita ho preso la decisione definitiva: proviamoci, vediamo cosa succede».
Nel 1980 decide di andare a Roma.
«Sono andato a informarmi per il Centro Sperimentale, ma il vero colpo di fortuna è stato vedere dei manifesti che pubblicizzavano un dibattito sulla crisi del cinema alla Sapienza. C’era Renzo Rossellini, figlio di Roberto, all’epoca presidente della Gaumont Italia. Durante il dibattito è emerso che uno dei motivi della crisi era la mancanza di scuole di cinema in Italia. Rossellini disse: “Va bene, mi avete convinto, facciamo una scuola di cinema”. C’erano duecento persone, solo trentatré hanno messo il nome. Dopo una settimana ci ha chiamato tutti».
Chi erano gli insegnanti?
«Ennio De Concini per la sceneggiatura e Mario Bernardo per la fotografia. Ma la cosa bella era che la Gaumont Italia produceva quasi tutto il cinema italiano. Per la regia sono venuti Bertolucci, Moretti, Scorsese addirittura, che era sposato con Isabella Rossellini. Era una scuola molto pratica: per tutto il primo anno abbiamo visto dei film. Continuo a dire che per imparare a fare il cinema, soprattutto come regista, devi solo vedere i film, tanti film, e cominciare a capire lo stile dei registi. Poi i due anni successivi abbiamo fatto cortometraggi in 16mm, dove ognuno svolgeva ruoli diversi».
Da quella scuola sono usciti nomi importanti.
«Daniele Luchetti, Carlo Carlei, Domenico Procacci che poi è diventato produttore. Dei trentatré che avevano firmato, alla fine siamo arrivati in undici. Non pagavi nulla, ma non ti pagavano nulla, quindi dovevi mantenerti a Roma».
Poi sono arrivati i primi film?
«La maggioranza degli alunni, finita la scuola, è rimasta assieme fondando una cooperativa che si chiamava Vertigo Film. Procacci ha cominciato a fare il produttore lì. La Vertigo ha prodotto “Il grande Blek” di Giuseppe Piccioni, dove io facevo l’aiuto regista, e poi “Nulla ci può fermare”, il mio primo film. Al terzo film, “La stazione” di Rubini, Procacci ha poi deciso di fondare una società, la Fandango, che esiste ancora oggi».
Ha girato un solo film in Sardegna, “Un delitto impossibile”, ha mai pensato di girarne un altro qui?
«A Sassari non so, credo di aver detto molto sulla città con quel film. Poi nel 1990 ho fatto anche un documentario su Sassari. Avevo scritto un altro film ambientato in Sardegna, tutto sulla Sardegna magica. Si sarebbe dovuto intitolare “Il fuoco di Sant’Antonio”, ma purtroppo quel progetto non è mai andato in porto e ho perso pure la sceneggiatura».
È un buon momento per il nostro cinema. Ci sono tanti registi sardi, quali sono quelli che apprezza di più?
«Direi che ce ne sono pure troppi. Comunque, se mi chiede chi preferisco rispondo con una mezza battuta che però non è una battuta: i sassaresi. Sono quelli che hanno più talento».
Nell’isola ha realizzato diversi progetti oltre a insegnare per un breve periodo all’Accademia di belle arti.
«Sì, sono stato tra i fondatori del Festival di Tavolara e di “Pensieri e parole”, prima ad Alghero e poi all’Asinara. Recentemente ho ideato una rassegna meravigliosa al cinema Moderno che si intitola “L’ombra della luce”: la storia del cinema dai Lumière a oggi, questo è il quarto anno. Non solo facciamo vedere i film, ma li introduciamo e li commentiamo alla fine. Comunque, mi faccia fare una considerazione».
Prego.
«Io mi sento più sassarese che sardo».
È la stessa cosa che hanno detto Bianca Pitzorno e Mario Segni parlando del padre Antonio
«Ho letto e non mi sorprende. Sassari è anomala rispetto a tutto il resto della Sardegna, tanto è vero che storicamente non siamo molto amati dal resto dei sardi perché siamo quelli che partono. Le pietre miliari della cultura sarda, quella proprio sarda, non ci appartengono perché siamo cresciuti diversamente. Se ci pensa a parte me e Peter Marcias, tutti gli altri registi sardi hanno girato solo in Sardegna. Credo che il motivo sia chiaro. Io invece ho girato tutto fuori, tranne un film che era ambientato non in Sardegna, ma a Sassari».
