Marco Bullitta: «Sono diventato Stefano Mele per il “Mostro” di Sollima»
L’attore sassarese tra i protagonisti della serie Netflix che esce oggi e racconta la “pista sarda” di uno dei casi più inquietanti
Uno dei casi di cronaca nera più inquietanti e misteriosi di sempre nella storia italiana, una vicenda intricata sulla quale riaccende i riflettori la serie “Il mostro” di Stefano Sollima che sbarca oggi su Netflix dopo la presentazione in anteprima alla 82esima Mostra di Venezia.
Un racconto in quattro episodi che attraversa documenti, tracce e ipotesi ancora oggetto di dibattito, ripercorrendo in particolare la “pista sarda” meno nota nell’immaginario collettivo dominato dalla figura di Pietro Pacciani e i compagni di merende. Un ritorno alle origini del caso del Mostro di Firenze, al primo degli otto duplici omicidi in diciassette anni di terrore, eseguiti con stessa arma, una berretta calibro 22.
La serie, scritta da Sollima insieme a Leonardo Fasoli, si concentra infatti sulle indagini che ruotano intorno alla riapertura del fascicolo sulla morte di Barbara Locci e Antonio Lo Bianco, uccisi nella notte del 21 agosto 1968 all’interno di una Alfa Romeo Giulietta bianca posteggiata lungo una strada sterrata vicino al cimitero di Signa, in provincia di Firenze. Tra i protagonisti l’attore sassarese Marco Bullitta, affiancato da Valentino Mannias, Francesca Olia, Giacomo Fadda, Antonio Tintis.
Bullitta, lei interpreta Stefano Mele, il primo dei possibili mostri di una storia dove i mostri, nel corso del tempo e delle indagini, sono stati diversi. Come si è preparato a entrare nel personaggio?
«Prima di tutto ho cercato di leggere molto sulla pista sarda, di cui devo confessare sapevo ben poco. Era importante per me avere una buona conoscenza degli elementi della storia, a partire dal contesto sociale da cui arrivava Mele. Poi ho potuto contare su una scrittura fortissima che mi ha permesso di finire la creazione del personaggio».
Dal racconto cosa emerge della personalità di Mele?
«Sicuramente la fragilità. Un uomo debole che lasciava chiunque decidesse per lui e andava nella direzione in cui lo portavano gli eventi, senza prendere in mano le situazioni. Ho cercato di restituire questa sua arrendevolezza anche fisicamente, sparendo nei costumi, con la postura e le spalle cadenti».
Nelle note di regia Stefano Sollima dice che avvicinarsi alla storia del Mostro di Firenze non è semplicemente un lavoro di ricerca, di scrittura, di messa in scena, è un confronto diretto con l’orrore. Da attore come si vive questo confronto?
«Sono passaggi complicati, ma fa parte del nostro lavoro essere immersi in altri mondi. Anche umanamente terribili. Parlando di una storia vera, con delle vittime, questo rende la situazione più delicata. Mi sono affidato alla grande documentazione e all’ottima scrittura».
Una sceneggiatura che rievoca fatti del passato, con un occhio anche al presente per come mette in evidenza le dinamiche patriarcali dietro la violenza.
«La serie fa un ritratto dell’Italia dell’epoca in cui la donna aveva poche possibilità di scegliere, di prendere iniziative senza il permesso prima del padre e poi del marito. E un retaggio di quel periodo c’è ancora. Vero che le vittime erano sempre un uomo e una donna, però va sottolineato l’accanimento, dopo aver uccisa la coppia, sul corpo femminile. Con mutilazioni al pube e al seno. Erano anni in cui si parlava di emancipazione, con le ragazze che accorciavano la lunghezza delle gonne, ed è come se il mostro volesse opporsi a quella ricerca di libertà seminando il terrore».
Ma lavorare con Sollima, regista che per certi versi ha cambiato le regole della serialità in Italia, che esperienza è stata?
«È come passare da una squadra normale a una di Serie A che lotta per lo scudetto. Devi fare la differenza. Stefano è un grande regista che mette gli attori nelle condizioni ideali di esprimersi e ho cercato di offrirgli il meglio a livello professionale e umano».