La Nuova Sardegna

L’intervista

Iosonouncane si racconta: «Cresciuto in un paese di miniere dove i cognomi sardi erano esotici»

di Paolo Ardovino
Iosonouncane si racconta: «Cresciuto in un paese di miniere dove i cognomi sardi erano esotici»

Jacopo Incani è uno degli autori più venerati nella musica italiana contemporanea

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L’inquadratura preferita è il mare in tempesta. Quello della sua Buggerru. Iosonouncane però sembra più un totem. Fermo, modellato dai venti, dalla salsedine, dalle intemperie, dal sole. Uno e moltitudine. Cantautore, produttore e compositore, Jacopo Incani è uno degli autori più venerati nella musica italiana contemporanea e “Die”, che ha compiuto dieci anni, è un album che segnerà un’epoca. Da poco al festival “Passaggi d’autore” a Sant’Antioco ha tenuto una masterclass sulla musica per il cinema, al suo fianco Francesca Mannocchi. Insieme hanno lavorato al doc “Lirica Ucraina”.

Ha lanciato la collana “Il suono attraversato” che raccoglie le composizioni per il cinema. Scrivere musica per un film cosa significa?

«Cambia quasi tutto. Quello che rimane identico nel mio modo di lavorare ai dischi è che mi occupo della quasi totalità degli aspetti in studio. La differenza più eclatante è che in questo caso non sei tu l’ultima persona che dà l’ok, tutto ciò che puoi fare è totalmente finalizzato alla poetica dell’autore».

È una prospettiva atipica.

«Non persegui il bello assoluto ma un bello relativo. Mi è capitato di scartare sessioni musicali per me molto più interessanti rispetto a quelle inserite nelle colonne sonore».

Nel 2024 ha composto le musiche per “Berlinguer – La grande ambizione”. Cosa provava a immaginare la musica per un personaggio e per un film del genere?

«È stato il primo film dopo tantissimi documentari. Molto parlato, in cui le sequenze visive sono pochissime o limitate a manciate di secondi. Inserire la musica in un paesaggio narrativo così denso è stato difficilissimo. Ho letto la sceneggiatura e Andrea (Segre, il regista, ndr) è venuto a trovarmi, abbiamo parlato a lungo e mi ha dato alcuni spunti. Aveva ascoltato ripetutamente “Ira” (album di Iosonouncane del 2021) e voleva che lavorassi su un tema largo che richiamasse le canzoni popolari che possono essere fischiettate. E poi che restituisse un senso tragico alla Rachmaninov, compositore che Berlinguer adorava. Il riferimento cinematografico invece era Elio Petri».

Un compito non proprio facile.

«Ma molto chiaro. Al primo tentativo ho scritto un tema e gliel’ho inviato la sera prima delle riprese, è andata bene. Quando ha iniziato la fase del montaggio ha colto la mia idea di aprire e chiudere il film con un grande tema».

Incani, è difficile resistere alla necessità di esposizione continua? Quando lei comunica qualcosa è sempre inerente alla musica, la discografia oggi chiede di essere presenti e fare engagement social.

«Non è difficile. È un momento storico e una fase di mercato dove è un attimo e si viene dimenticati. La convinzione è che una iper-presenza sia l’antidoto a questo rischio. Idee che vengono dagli uffici marketing ai quali si affidano le case discografiche, abitati da persone che fanno lo stesso lavoro oggi sulla musica e domani sulle merendine. Diffido da questo approccio».

Quindi la sostanza riesce ancora a vincere sulla forma?

«Quando c’è sostanza artistica ti costruisci nel tempo una credibilità. Ma ci sono altri casi di colleghi come me, penso a Niccolò Contessa o Andrea Laszlo De Simone. Sta tutto nel fare le cose per bene e lasciare che il tempo faccia il suo. Se tutto deve venire, arriva. Il mercato muta alla velocità della luce, consideriamo tombali delle verità che sono totalmente effimere. Non sento di fare nulla di strano. Mi sembra invece che tutto intorno a me stia perdendo lucidità».

In queste settimane si parla dell’album di Rosalia in 13 lingue, lei con “Ira” non ha solo tradotto ma aveva proprio inventato un linguaggio mediterraneo facendo crasi tra arabo, francese, inglese, spagnolo, italiano. Come le venne l’intuizione?

«Mi interessava mettere in scena il tentativo di esprimersi di qualcuno che si trova in un luogo non proprio, e che usa frammenti di lingue apprese nel viaggio. Una lingua della necessità. Volevo provare a restituire lo smarrimento di una grande migrazione, perdendo la mia lingua, l’italiano. Ha comportato caricarsi su un disco di due ore con una lettura non immediata, è vero».

Le cito due artisti sardi a cui è legato e mi dice cosa le viene in mente. Inizio: Paolo Angeli.

«Uno dei miei musicisti preferiti. Organizzai un suo concerto a Buggerru e così ci siamo conosciuti. Aveva sentito parlare di me, mi chiese di inserire una sua parte con la chitarra sarda preparata nel mio disco (compare nel brano “Buio” contenuto in “Die”). Poi è uscita l’idea di un tour assieme, esperienza che ha segnato un prima e un dopo nella mia storia. Ero cresciuto ascoltando dischi strutturati come “Kid A” o quelli dei Pink Floyd, dei Beatles, e mi sono misurato con un approccio jazzistico: cercare lo sbaglio per costruire qualcosa di nuovo».

Daniela Pes.

«Uno dei più grandi talenti incontrati in via mia, per l’uso della voce e l’istinto melodico. È sanguigna, drammatica nella spinta che ha verso la musica. Mi sono messo a disposizione e abbiamo lavorato per tre anni a “Spira” con la stessa dedizione con cui lavoro ai miei dischi, forse anche di più».

Com’è la Sardegna che lei riesce a vedere con occhio interno ed esterno allo stesso tempo?

«Ho vissuto nove anni a Buggerru, dieci a Iglesias e 23 a Bologna. Buggerru è casa, il luogo che ha forgiato il mio inconscio. Iglesias ci sono gli anni della scoperta. A Bologna sono diventato lentamente un musicista e un uomo. Oggi della Sardegna ho una visione frammentata, perché è anche nelle persone incontrate lontano, che riverberano l’isola nel loro modo di vivere. Non sono cresciuto con un’idea tradizionale o folklorica, ma in un paese meticcio, di miniere, in cui erano i cognomi sardi ad avere un che di esotico. Comunque, da lontano percepisco una trasformazione in atto».

Un tema fondante della sua musica è il Mediterraneo, sempre in tempesta. Perché?

«Per me è la porzione di mare che ho visto tra le case di Buggerru. Non è un discorso identitario, ma proprio di morfologia; che per la fantasia di un bambino ha un peso enorme. Da piccolo per prima cosa, in estate, mi affacciavo a vedere il mare: dal colore capivo se avrei fatto il bagno al pomeriggio. E sono figlio di un pescatore perciò nel mare, sui grandi pescherecci davanti alle coste della Libia, c’era anche mio padre. Verso il Mediterraneo non ho un desiderio di restituzione ma di indagine. Mi viene male tracciare i contorni e definire dove inizia e dove finisce il mio essere sardo, invece mi è molto chiaro il mio essere cresciuto a Buggerru».

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