La Nuova Sardegna

L'intervista

Michele Placido: «Io come Bernardo De Muro, figlio della provincia. Atreju? Se mi invitano vado anche alla festa dell'Unità»

di Alessandro Pirina
Michele Placido: «Io come Bernardo De Muro, figlio della provincia. Atreju? Se mi invitano vado anche alla festa dell'Unità»

L'attore e regista a Tempio per rendere omaggio al grande tenore gallurese

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Tempio rende omaggio a uno dei suoi cittadini illustri con uno dei più grandi attori e registi del cinema italiano. Sarà Michele Placido, domani 19 dicembre, alle 21 al Teatro del Carmine, affiancato dal tenore Gianluca Terranova, a guidare il pubblico in un percorso emozionale e storico, intrecciando parola e memoria, teatro e musica, per restituire la dimensione umana e artistica di Bernardo De Muro in “Quand’ero Folco”, appuntamento inserito nel percorso di valorizzazione della lirica internazionale promosso dalla Fondazione Bernardo De Muro, all’interno del festival intitolato allo stesso tenore.

Placido, conosceva la storia di Bernardo De Muro?
«Non nei particolari. Io amo molto la lirica, vado spesso a sentire l’opera e di lui sapevo che è stato un tenore molto importante. Nella prima metà del secolo scorso era uno dei numeri uno a livello internazionale».

Cosa la affascina della lirica?
«In qualche modo la tecnica del bel canto ha delle similitudini con quella che abbiamo noi attori. Quello che ci unisce è la passione, anche se spesso non basta. Nella vita bisogna essere anche fortunati. Ci vuole il talento, che però è un qualcosa di misterioso. “Il talento non si insegna”, diceva Luciano Pavarotti. E in effetti non si possono insegnare né il bel canto né come si diventa Eduardo, quelli sono doni della natura. Li hai o non li hai. Ma la passione è fondamentale, perché se poi incontri un bravo maestro può innaffiare la passione e fare venire fuori il talento».

De Muro partì dalla Sardegna, lei dalla Puglia: vede similitudini nelle vostre storie?
«La Sardegna è un’isola, anche la Puglia in qualche modo lo è. Ma quei piccoli paesi che sono la provincia italiana sono pieni di talenti. Anche in quel caso bisogna avere fortuna. Io l’ho avuta, perché da un paese del Subappennino sono finito a fare il servizio militare a Roma e da lì mi sono iscritto all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico, quella da cui sono usciti tutti: Gassman, Manfredi, Carmelo Bene. Ma ripeto, è stata anche questione di fortuna: se non fossi andato a fare il militare a Roma magari non avrei fatto né l’Accademia né tutto il resto».

Sono passati 35 anni dal suo primo film da regista, “Pummarò”: il suo approccio è cambiato?
«Negli anni sono venute fuori tante cose che ho appreso dai miei maestri. Io ho avuto la fortuna di lavorare con Rosi, Bellocchio, i fratelli Taviani. Come un calciatore bravo ma non eccezionale, a un certo punto ho deciso di passare in panchina con un docu-film sul problema immigrazione che ancora non esisteva. “Pummarò” fu un film difficile, lo avevo offerto a tanti colleghi, ma non erano interessati a questa storia, perché secondo loro l’immigrazione non sarebbe mai diventata un problema. E alla fine mi sono buttato e me ne sono innamorato».

Cosa significa per lei essere un regista?
«Vado oltre l’attore, oltre Michele Placido e nasce qualcosa di misterioso che mi porta a raccontare le cose con il cuore. Stare dietro la macchina da presa mi dà un enorme piacere, mi emoziona. Ogni volta è come fosse la prima. Mi è successo con tutti i film, e anche con la serie che sto per girare sul giudice Livatino di cui non posso dire nulla»

Qual è il filo conduttore che unisce i suoi film così diversi l’uno dall’altro?
«La conoscenza. Ogni volta che affronto un progetto che non conosco mi metto a leggere, a studiare. Se il personaggio mi affascina diventa un bisogno entrare nel personaggio di un uomo o di una donna speciale, come è stato per Caravaggio o Sibilla Aleramo o lo stesso Livatino».

Da “Pummarò” a “Eterno visionario”: quale ritiene il suo film più riuscito?
«Forse “Romanzo criminale” o anche “Vallanzasca” con Kim Rossi Suart. Anche Caravaggio che ha avuto un grande successo anche in Francia, in Giappone. Ma d’altronde, è un personaggio molto amato, la grandezza di questo pittore è stata scoperta solo negli anni Cinquanta e sono voluto entrare prepotentemente nella sua vita. Mi affascinava, perché anche lui, come il tenore De Muro e Michele Placido, arrivava dalla provincia».

Il film che ancora le manca?
«Ho sempre da parte quattro o cinque idee, tutto dipende dal percorso produttivo. I precedenti produttori mi hanno sempre dato la possibilità. Le idee ci sono, ma le tengo per me».

Attore tra i più amati e popolari del Paese, e non solo. Ha sentito dei pregiudizi nei suoi confronti come regista?
«Sì, anche perché arrivavo dall’enorme successo popolare della Piovra. Se sei un attore popolare non sempre diventi un regista popolare. Ma attraverso la tua passione, i tuoi racconti vieni accettato dal pubblico e qualche volta anche dalla critica».

La sua presenza ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, ha suscitato anche polemiche: si è pentito di essere andato?
«C’ero già stato tre edizioni fa, e ho detto quello che pensavo: Giorgia Meloni - e nessuno lo può negare - è quella che in questi anni ha avuto più voti di tutti. Questo è il mio pensiero. Ma se mi avessero invitato alla festa dell’Unità sarei andato anche lì, sono sempre curioso di ascoltare le parti politiche. Siamo in democrazia, uno può votare per la Meloni o l’opposizione, ma l’artista vola sempre sopra le parti. La sua vera passione non è la politica. Anzi, anche noi la facciamo, ma attraverso l’impegno professionale».

Il commissario Cattani era l’uomo più popolare d’Italia: ha mai pensato alla politica?
«All’epoca lo feci. Marco Pannella mi mise in lista per le Europee con radicali e repubblicani. Fui il primo dei non eletti. Poi Pannella rinunciò alla sua elezione e chiese anche a me di non andare a Bruxelles per fare spazio a uno che la politica la sapeva fare. Aveva ragione. Io l’impegno politico lo porto avanti con i miei film. Anche perché quello è l’unico mestiere che so fare».
 

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