La Nuova Sardegna

L’intervista

«Scrivo in limba per altruismo, così mi sento utile alla mia terra»

di Luciano Piras

	Giuseppe Corongiu e un murale di Orgosolo
Giuseppe Corongiu e un murale di Orgosolo

Giuseppe Corongiu con il libro “Gherras” diventa un piccolo-grande caso editoriale

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Ostinato e resistente. Ma guai a chiamarlo “l’ultimo dei Mohicani”. «No, non mi piacciono queste definizioni stucchevoli» ribatte. Eppure Giuseppe Corongiu, «iscritore de limba sarda, dirigente della pubblica amministrazione, ex giornalista, ex ativista linguìsticu, ex de totu» ironizza, è un testardo di prima categoria. Paladino della lingua e dell’identità sarde, insiste e continua a scrivere libri in sardo. L’ultimo, uscito a giugno scorso, è “Gherras” (Janus editore), contos sulle guerre nel mondo e sui conflitti interiori, sociali e familiari. In poco tempo è diventato un “piccolo-grande caso editoriale” tutto isolano, le presentazioni ormai non si contano, ce ne sono ovunque. È la terza opera di narrativa, dal 2019 a oggi, dopo “Metropolitània e àteros contos tòpicos, distòpicos e utòpicos” (Palabanda editore) e “S’intelligèntzia de Elias” (Janus editore). Numerosi, prima ancora, i saggi di linguistica e di politica linguistica dati alle stampe da Giuseppe noto noto Pepe Coròngiu.

Chi glielo fa fare a scrivere in sardo? Lei sa benissimo che i lettori in genere sono pochi, sempre meno. I “lettori in limba”, per giunta, sono una minoranza della minoranza...

«È una scelta che mi viene dal cuore, ma non per romanticismo – risponde –. Mi pare di essere più utile così alla mia terra. È una sorta di volontariato faticoso, ma felice. Abbiamo tanti scrittori che hanno scelto l’italiano. E tanti sono bravi e mi piacciono. Almeno uno che continui la letteratura in sardo mi sembra una ricchezza per tutti, anche per gli “italianisti”. Spero di essere emulato presto da altri... » dice.

Classe 1965, nato a Laconi, vive a Cagliari da una vita, lavora a Quartu Sant’Elena. Dal 2004 al 2014, Corongiu ha diretto il servizio Lingua sarda della Regione. Negli anni di governo di Renato Soru, era schierato per la standardizzazione del sardo. Sue sono opere come “Una limba pro guvernare” del 2004, “Il sardo: una lingua normale” del 2013, e “A dies de oe. Annotos pro una limba sarda tzìvica e cuntemporànea” del 2020 (tutti e tre Condaghes). Nel 2014 ha fondato la testata “Limba sarda 2.0”, che ha diretto fino al 2019. Di recente ha dato vita al Premio europeo delle lingue regionali “Ondras”.

«È sicuro che il sardo sopravvive, in molte zone della Sardegna è ancora molto forte e vivo – riprende il discorso –. Pertanto, non mi sembra di appartenere alla categoria della “resistenza” culturale, ma piuttosto della “esistenza”. Si scrive per esistere, si pubblica per questo. Si presenta il libro in questo nomadismo isolano per co-esistere insieme agli altri sardi. Insomma, non sono pessimista: la mia letteratura è un atto di altruismo ottimista. Ci siamo, come sardi, e ci saremo in futuro».

Dietro uno scrittore così coraggioso c’è anche un editore altrettanto impavido. Il mercato dei libri in sardo non è certo remunerativo...

«Ringrazio Paolo Pisano della Janus perché investendo di tasca sua come fanno gli imprenditori veri mi ha consentito di accettare la sfida del mercato editoriale e del sistema letterario dei festival. Per scelta non abbiamo nessun contributo pubblico, ma facciamo cose di qualità. Ringrazio anche, per lo stesso motivo, la splendida editor nuorese Maria Antonietta Piga. Ma anche gli scrittori Giovanni Follesa e Rossana Copez che dandomi sempre buoni consigli mi hanno rafforzato nel mio talento. Un libro lo firma uno, ma dietro c’è un lavoro di squadra. Certo non si fa per diventare ricchi, ma anche lavorare per il sociale arricchisce la reputazione. E anche la soddisfazione personale, che genera salute e buon umore, i quali non hanno prezzo».

Ci dia qualche numero: quante presentazioni ha fatto finora? Quante persone partecipano in media? Quali sono le zone della Sardegna più partecipi a questo tipo di eventi?

«Per scaramanzia non le conto, ma certo con gli ultimi due libri ho superato il centinaio ampiamente. A volte sono molto affollate, a volte, siamo in pochi, anche in piccoli comuni delle zone interne, ma spesso queste ultime sono molto interessanti perché ci ricordano che siamo lì a dare per la nostra lingua e a essere utili per il nostro popolo e non solo a prendere. Lo scrittore deve essere generoso, non egocentrico. Io lo faccio con spirito di servizio e il mio modo per dare un umile contributo al miglioramento della società. In ogni caso i tour di presentazione sono necessari per vendere il libro sardo: è come per il torrone nelle feste, se non lo metti in bancarella non lo cerca nessuno. Sulle zone non vedo grandi differenze da Sud a Nord. Se si riesce ad arrivare al pubblico poi tutti partecipano. Semmai il problema è di comunicazione: far sapere che esiste un autore in sardo che scrive di contemporaneità e la cui presentazione non è noiosa, anzi divertente. Ci sono pregiudizi sul libro sardo perché gira purtroppo molta roba pedante e noiosa».

A proposito di zone della Sardegna. Lei scrive in sardo, ma qual è il sardo che utilizza?

«A questa domanda rispondo sempre che il criterio di scelta non è geografico, ma estetico. Mi piace il sardo della grande poesia classica da Pisurzi a Montanaru, ovviamente attualizzato. Ho assimilato la lezione dell’eleganza da Pillonca. Da buon artigiano digitale, stando attento alla “galania de sa limba” metto dentro tutto ciò posso delle varianti, anche centrali e meridionali, che per fortuna conosco bene, in particolare per il lessico, ed è veramente una grande ricchezza che, per esempio, altre lingue non hanno. Questo consente di coinvolgere tutti i territori che individuando i propri geosinonimi, riconoscono anche quelli degli altri. Sono per una lingua letteraria moderna, ma alta, che insegue il prestigio. Non mi interessa il realismo, altrimenti scriverei in code switching mischiando sardo e italiano. La sfida è scrivere bene, e rendere la lettura facile e agevole a chiunque conosca almeno un po’ il sardo. Noto che spesso si riesce, poi si sconta il fatto che si tratta di una lingua non alfabetizzata. Le donne, comunque, lo leggono di più».

Dunque, non è vero che i sardi quando parlano in sardo non si capiscono tra di loro? Anche questa è l’ennesima fake sull’isola?

«Sì, sono bugie diventate verità sociale per insipienza. Succede nelle minoranze linguistiche. Di recente ho presentato di seguito a Pula, Belvi e Martis. Tutti hanno capito tutto e la lingua dell’autore era la stessa. Ma, per chi conosce nel profondo la Sardegna, sa che questo è normale. Il mio romanzo uscito nel 2022 “S’intelligèntzia de Elias” ha venduto circa 1.000 copie e gli esperti mi dicono che sia un ottimo risultato per un’opera di 500 pagine in sardo. Molti libri “regionali” in italiano non riescono ad arrivare a queste tirature».

Lei sta dimostrando che in sardo si può scrivere di tutto. Con il sardo di può fare persino fantascienza... ennesima conferma che il sardo è una lingua normale?

«La letteratura in sardo, nella Sardegna di oggi, può dare qualcosa di più e meglio. È un idioma in crisi, è vero, ma, anche chi non lo parla, lo sente vicino. Magari era la lingua di papà o di mamma, o della nonna, o di qualche conoscente speciale: sono suoni e concetti che evocano sentimenti e identità profonde. Scavano nell’anima e nei ricordi. Lasciano tracce indelebili. Spesso altre lingue non riescono perché non hanno accompagnato la vita dei sardi per secoli. Se parli in sardo di “Gherras”, di stupri, di violenze, ma anche di vicende lievi che inducono al sorriso, “forrogras in su coro fungudu de sas cosas”, cioè smuovi sensazioni e sentimenti profondi, che magari pensavi di aver dimenticato. Il sardo ci fa più ricchi, più completi, meno scontenti. A mio avviso – chiude Corongiu – anche più produttivi, pronti ad affrontare le nuove sfide della contemporaneità, anche quella dello spopolamento e della pace. Le più difficili».

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