La Nuova Sardegna

Cagliari

Fine vita: dopo il caso Piludu, la scelta di un altro malato di Sla

Marco Cappato
Marco Cappato

Un paziente veneto ha chiesto di restare addormentato fino al sopraggiungere della morte, per Marco Cappato dell'Associazione Luca Coscioni si tratta un diritto costituzionalmente garantito

14 febbraio 2017
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CAGLIARI. Finire la propria vita in maniera dignitosa anche se si soffre di una malattia altamente invalidante che prostra il fisico e l'animo del paziente. E' il caso di Dino Bettamin, che ha scelto di dormire fino all'ultimo istante, di restare sedato fino a quando una crisi di cuore l'ha strappato a quasi 71 anni da una vita che l'aveva portato a fare i conti con la Sla, riporta alla ribalta della cronaca il grande tema del fine vita e del diritto di rinunciare all'accanimento terapeutico.

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Per Marco Cappato, tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni per la libertà scientifica, il caso di Dino «conferma ciò che abbiamo conquistato in un decennio di lotte al fianco di Piergiorgio Welby, Peppino Englaro e tanti altri malati: il diritto costituzionalmente garantito a sospendere le terapie sotto sedazione. Nel recente caso del nostro iscritto Walter Piludu fu un magistrato a imporre alla Asl di Cagliari di rispettare la scelta del malato. Nel caso di Treviso, sono stati direttamente i medici, nel pieno e rigoroso rispetto della propria deontologia professionale, a scegliere di rispettare la volontà del malato».

Bettamin è morto nella sua casa a Montebelluna, assistito dalla moglie, dai due figli e dal personale sanitario. «Dino - dice l'infermiera Anna Tabarin, sua 'angelo custodè da alcuni anni assieme a un collega - non ha mai chiesto di morire. Ha chiesto di dormire fino alla fine. Lui era profondamente religioso e si è affidato a Dio. Sapeva che sarebbe potuto morire dopo un giorno o dopo cinque mesi. È morto lunedì alle 16.15».

La moglie, Maria Pellizzari, nella compostezza del dolore, dice forte: «Non è eutanasia. È stata una scelta di vita sua e nostra». È stato un desiderio, quello di poter dormire fino all'arrivo della morte, all'insegna della volontà di una «vita dignitosa», come ricorda Anna; di un vivere che però non riusciva più a fare pace con un malessere senza fondo a livello psicologico e che non trovava soluzione in alcun tipo di intervento. E l'angoscia profonda, assieme alla «fame d'aria», è uno di quei «sintomi refrattari», come si usa dire nel linguaggio sanitario, che possono portare all'applicazione del protocollo della sedazione palliativa o «terminale». Un protocollo applicato per la prima volta per un malato di Sla.

Tutto diverso, comunque, dalla soddisfazione di un desiderio di porre fine alla propria vita. «Non si parli di eutanasia - dice Francesco Benazzi, direttore generale dell'Ulss 2 -. Il paziente può chiedere di sospendere certe terapie perché oltrepassarle sarebbe un accanimento terapeutico».

Per Benazzi, gli operatori sanitari coinvolti «hanno assolto il loro compito in scienza e coscienza. Un paziente può dire basta con i farmaci, lenite il mio dolore e idratatemi». La sacca per l'idratazione è rimasta attaccata a Dino fino all'ultimo minuto e solo un'ora dopo il decesso, constatato da un medico, è stata staccata la macchina per la respirazione. «Lo terrorizzava l'ipotesi di morire soffocato», rileva l'infermiera, e ha scelto una strada in linea con la legge e la sua coscienza di credente. È stato una sorta di «testamento biologico» quello di Dino, ripetuto nei brevi momenti di risveglio.

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