La Nuova Sardegna

Nuoro

«Quella donna non è stata segregata»

Chiusa la vicenda giudiziaria del medico francese accusato di aver sequestrato la sorella al Monte

05 luglio 2016
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NUORO. Assolti perché il fatto non sussiste. È arrivata dieci minuti prima delle 14 la sentenza del giudice Mariano Arca, per il caso ribattezzato “Donna segregata all’Ortobene” che vedeva sul banco degli imputati un medico francese, Claude Boublil (difeso dall’avvocato Pasquale Ramazzotti), esponente di Scientology, accusato, insieme ad altre tre persone: Marie Claude Decouduh, Rachid Hassereldith Kabbara e Juline Quyrou (difesi dagli avvocati Antonio Careddu e il collega Pilerio Plastina), di aver sequestrato la sorella Martine Boublil, 51 anni.

Una storia iniziata nel gennaio del 2008, quando la polizia, avvisata da una vicina di casa che aveva trovato nel suo giardino dei fogli con richieste di aiuto, scoprì quella che per anni è stata considerata la “casa prigione” a qualche chilometro dalla città, dove la presunta vittima veniva tenuta in precarie condizioni fisiche e igieniche. Un quadro questo che però ieri mattina nel corso della discussione ha iniziato ad assumere contorni ben diversi. A delinearli lo stesso pubblico ministero Andrea Ghironi che, ripercorrendo i punti salienti del dibattimento ne ha ricostruito la vicenda.

«Una storia complicata – ha detto l’accusa – iniziata con il ritrovamento dei biglietti con le richieste di aiuto da parte della donna. Quando gli agenti della questura sono arrivati nella casa, hanno trovato un ragazzo francese al piano terra e nella stanza della donna, al secondo piano, piatti sporchi e rifiuti di ogni genere. Le porte e le finestre, però erano aperte. Fatto questo che farebbe venir meno il concetto stesso di sequestro di persona che per definizione indica la privazione della libertà di movimento».

La complessità di questa storia per il pubblico ministero è derivata dal fatto che la donna, affetta da disturbi di natura psichiatrica, aveva momenti di lucidità in cui riusciva a raccontare la verità, altri in cui, invece, in preda al delirio di persecuzione, diceva in falso.

«Alcuni punti sono sicuramente veri – ha aggiunto il pm Ghironi – come quelli relativi alla situazione igienica precaria in cui la donna viveva. Perchè lasciare nella stanza piatti sporchi e resti di cibo? Falso invece il fatto che la donna fosse denutrita e che non le dessero degli abiti per vestirsi. Due paia di pantaloni erano stati trovati sui rami di un albero davanti alla sua finestra dalla quale Martine Boublil sarebbe pure potuta scappare o avrebbe potuto urlare. Ma questo non è mai avvenuto. Provato anche il fatto – ha aggiunto l’accusa – che la donna non avesse ereditato nè gioielli nè danaro da parte della madre, e che invece il fratello avesse chiesto ad alcuni amici di badare a lei perché fino a poco tempo prima era rinchiusa in una casa di cura. Per questo chiedo l’assoluzione per tutti gli imputati per il capo A (il sequestro) perché il fatto non sussiste; chiedo inoltre venga riqualificato il reato in maltrattamenti in famiglia per il quale chiedo il non luogo a procedere».

Anche i difensori degli imputati apprezzando la discussione della pubblica accusa, prima di chiedere l’assoluzione per i loro assistiti, si sono soffermati su alcuni aspetti importanti che hanno caratterizzato questo processo. «In questa storia – ha detto l’avvocato Ramazzotti c’è tutto il contrario della volontà di maltrattare. L’unico scopo dei fratelli della donna, era quello di farla uscire dal tunnel dei psicofarmaci. La casa all’Ortobene aveva scopi terapeutici».

«Un caso clinico particolare – ha sottolineato l’avvocato Plastina – in cui c’era il rifiuto totale della cura che veniva manifestato con comportamenti incontrollabili». (k.s.)

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