La Nuova Sardegna

Nuoro

Deledda, giustizia come filo conduttore

di Paolo Merlini
 Deledda, giustizia come filo conduttore

Convegno a più voci della Scuola forense: gli operatori del diritto analizzano un tema cardine nell’opera della scrittrice  

16 novembre 2021
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NUORO. Un luogo comune, sempre meno diffuso per la verità, associa ai romanzi di Grazia Deledda la vendetta come una delle tematiche più rappresentative della sua opera narrativa. Digitando su Google il cognome della scrittrice e il termine vendetta si ottengono 240mila risultati in meno di un secondo (l’associazione con la parola “perdono” ne genera circa centomila in meno). Ma qual è il senso del diritto e della giustizia in Grazia Deledda? È davvero così arcaico come sembrerebbero suggerire, appunto, luoghi comuni duri a morire e i logaritmi che originano nell’era della comunicazione digitale? La domanda se la sono posta i professionisti del diritto (avvocati e magistrati principalmente) in un convegno promosso dalla Scuola forense dell’ordine degli avvocati di Nuoro che si è svolto all’auditorium del museo etnografico. Un incontro seguito in presenza e in streaming da circa trecento persone.

Per il direttore della scuola forense, l’avvocato Antonio Careddu, la prospettiva iniziale va ribaltata: il senso della giustizia in Grazia Deledda è profondo, ha una levatura morale altissima. E lo è ancora oggi, a cent’anni e più di distanza, in una situazione mutata sotto ogni profilo anche nella Sardegna centrale che lei ha raccontato in tutte le sue spesso drammatiche contraddizioni. «In lei è costante la ricerca di giustizia – dice Careddu – e a ben guardare la ponderazione e il tempo necessari alla sua definizione sono gli stessi alla base dei sistemi normativi dei giuristi e degli operatori del diritto. Nella Deledda troviamo sempre il prevalere della coscienza di ciascuno nell’analisi delle proprie azioni, per ricordarci come alla fine l’individuo sia il primo giudice di se stesso. E assistiamo al prevalere del giudizio morale rispetto allo stesso esito di un’azione processuale».

Per l’avvocato Basilio Brodu non si può analizzare il tema della giustizia in Grazia Deledda senza prendere atto del periodo storico, cruciale nella storia del banditismo sardo, in cui lei ambientò i suoi romanzi, per così dire in presa diretta. «I primi anni del ’900 – dice Brodu – rappresentano in pieno la spaccatura tra lo Stato con i suoi metodi spesso repressivi e la società pastorale con i propri codici. E lei questo racconta».

Dino Manca, filologo dell’università di Sassari, uno degli studiosi più puntuali dell’opera deleddiana, nella sua relazione ha voluto estendere l’analisi del rapporto tra la Deledda e il senso di giustizia a quello degli scrittori sardi nel loro complesso. Per loro, e per la scrittrice nuorese in particolare, la Sardegna non è mai una quinta scenografica sulla quale costruire un racconto, ma è il centro della narrazione, la prima e assoluta protagonista, «al punto da diventare un’ossessione che la psicoanalisi può aiutarci a capire. La Sardegna – dice Manca – non è un luogo, ma è il luogo per definizione. L’isola è insieme un mito e un archetipo della condizione umana, una terra senza tempo».

Mauro Pusceddu, giudice del tribunale di Sassari e autore di romanzi noir, fa notare come l’elemento della giustizia nel suo complesso sia curiosamente più presente in Grazia Deledda che nel giurista-scrittore per eccellenza, Salvatore Satta. A differenze di quest’ultimo, infatti, Deledda fa partire la propria narrazione da vicende in cui il protagonista è chiamato a confrontarsi, a causa delle proprie azioni, con l’universo della giustizia, quella degli uomini e quella dello Stato. In quest’ultimo caso dimostrando quanto Deledda fosse attenta all’evoluzione del diritto nel suo tempo: parla di prescrizione all’epoca in cui questo istituto si affacciava nel dibattito nazionale, anzi vent’anni prima (nel romanzo “Cosima”); di cambiali prima che si legiferasse su di esse (in “Canne al vento”). E parla di divorzio 70 anni prima della sua introduzione in Italia, come nel romanzo “Dopo il divorzio” del 1906 (in realtà proprio in quell’anno il governo Zanardelli lo introdusse con un decreto che poi decadde). «Così per lei la legge e la giustizia diventano strumento narrativo, lo spunto per una trama attraverso la quale ci mostra l’uomo nelle sue contraddizioni. Grazia Deledda parla al presente ma in realtà ci racconta il futuro con incredibile preveggenza».

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