Pietro Moro, il Michelangelo del legno
Il racconto dello storico maestro d’ascia: «Un mestiere affascinante che ha saputo evolversi e adattarsi ai tempi»
OLBIA. Quasi un'arte divina, un prezioso segreto tramandato nei secoli. Dare un'anima al legno. Pietro Moro, classe 1940, è uno dei custodi dell’ antica tradizione dei maestri d'ascia. Il padre Antonio, Antoniccu per tutti, era un magister axiae, vecchia scuola. Di quelli che costruivano gli attrezzi del mestiere da soli. Capolavori di ingegneria navale. E andava a scegliere gli alberi direttamente nei boschi. Bastava un colpo d'occhio per capire quale tronco potesse diventare un chiattino, un gozzo. Un dono trasmesso al figlio Pietro Moro. Anche lui un Michelangelo del legno, con la missione di liberare, a colpi di ascia e pialla, la barca imprigionata nel legno. «Ho respirato l'aria di cantiere sin da ragazzino – racconta Moro, autore del libro “Manuale del maestro d'ascia” –. Ho preso il diploma di ragioniere nel 1963, poi sono entrato all'Accademia navale come allievo ufficiale, ma ho dovuto abbandonare. Mio padre aveva bisogno di aiuto nel cantiere e i miei fratelli erano tutti e due imbarcati».
Mastro Pietro cresce respirando l'odore del legno, della pece. Si nutre di mare. «Mio padre mi portava sempre con lui per scegliere gli alberi da tagliare – racconta – . Non c'erano certo i magazzini di oggi, in cui il legno è già pronto, quanto e come lo vuoi. Lui guardava gli alberi e adocchiava quelli storti, ondulati. Non ci servivano quelli dritti, perfetti. Gli bastava un colpo d'occhio. Gli alberi venivano poi tagliati con i segoni a mano, caricati sui carri a buoi e consegnati nel nostro cantiere. Siamo stati i primi in zona ad avere la sega a nastro. Tutti i pastori e i contadini venivano a tagliare il legno da noi, a fare il gioco per i buoi. All’inizio costruivamo tanti chiattini. Mediamente ci impiegavamo una settimana. E non c'era certo la pittura. Usavamo la pece. E siccome non avevamo pennelli li facevamo facendo essiccare le pelli di agnello e tagliandole a striscioline».
Moro vive da protagonista anche la nascita della Costa Smeralda. L'arrivo del principe Karim Aga Khan, a cui fa da marinaio per alcuni mesi a bordo della barca “Bengasi”. «Lo portavamo in giro a visitare i luoghi in cui intendeva far nascere gli alberghi di Porto Cervo – continua Moro – . Un lavoro di alcuni mesi. Poi sono entrato in cantiere. Ho seguito mio padre, ho cercato di imparare il più possibile da lui. E sono diventato maestro d'ascia. Certo la Costa ha influito molto sul nostro lavoro. Si è ridotta la costruzione di chiattini e abbiamo cominciato a restaurare tutte le barche dell’Aga Khan, del fratello, dei suoi ospiti».
Il nome di Pietro Moro è impresso nell'albo d'oro di questi professionisti a metà tra gli scultori, gli ingegneri e i costruttori. «Per essersi particolarmente distinto per maestria nell'esercizio della propria attività», si legge nell'attestato rilasciato dal ministero della Marina mercantile. Ma maestro Moro non esibisce la sua arte come un trofeo. Con umiltà ha deciso di mettere a disposizione dei più giovani il suo patrimonio di esperienza. E frenare l'estinzione di questo glorioso mestiere. «Questo è un lavoro bellissimo, di grande responsabilità – sottolinea Moro –. La prassi prevede il lavoro di tre anni in un cantiere navale per avere il titolo di maestro d'ascia. Ma al di là della scuola serve passione, spirito di sacrificio. I benefici arrivano nel tempo. Ed è una grande emozione vedere una barca che hai costruito galleggiare nel mare».
Nel 1989 Moro ha anche guidato un corso per maestri d'ascia voluto dalla Cee. Il suo cantiere di via Boccaccio è diventato un'aula per 15 studenti. Ed è in quella occasione che ha cominciato a scrivere il suo libro. Un manuale dalla a alla z sull’antica arte del maestro d’ascia. Un volume semplice, una guida preziosa che racchiude i segreti di questo antico mestiere. Poi l’incontro con la Lega Navale. Moro restaura tre palischermi su cui gareggiano gli equipaggi della “Remata della gioventù”. E la decisione della Lega di pubblicare il libro-manuale. «Nel testo ho inserito tutte le informazioni che ritengo siano inutili per fare questo mestiere – aggiunge Moro –. Un lavoro che nel corso degli anni è cresciuto, è cambiato, ha saputo evolversi, adattarsi ai tempi. Dal legno alla vetroresina. Certo la vecchia guardia, quella di cui faceva parte mio padre, era davvero brava. Loro sì che erano davvero migliori di noi. Erano straordinari e non avevano certo la tecnologia che abbiamo noi. Ogni cosa era fatta a mano. Anche gli strumenti di lavoro».
Oggi l’eredità dei cantieri Moro è stata raccolta dai nipoti di mastro Pietro: Massimo ( che è maestro d’ascia) e Antonio. Con loro il padre Michele.
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