La Nuova Sardegna

Olbia

Cosimo, guardiano del faro ad Arzachena: isolato per scelta da 27 anni

di Luigi Soriga
Cosimo, guardiano del faro ad Arzachena: isolato per scelta da 27 anni

Lavora a Capo Ferro, Porto Cervo: «Per me non è cambiato nulla»

12 aprile 2020
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SASSARI. La solitudine è una condizione dello spirito che può essere allenata. La preparazione di Cosimo Benefico, ultimo guardiano del faro militare di Porto Cervo, è cominciata ventisette anni fa. L’isolamento, la distanza sociale sono già incastonati da decenni nella sua esistenza, fanno parte del pacchetto di dotazioni base, e il coronavirus per lui non è altro che un irrilevante limitatore inserito nei contatti umani. «Se devo dirla tutta, la mia quotidianità non è cambiata di una virgola. Mi accorgo che intorno a me tutto è diverso perché assorbo questa enorme tragedia attraverso la tv. Ma io ho scelto una vita solitaria nel 1993, ci sono affezionato e fino ad ora non ho mai pensato di cambiarla. Perché ti toglie tante cose ma te ne regala altrettante, e io il mio equilibrio sono sempre riuscito a trovarlo. Non mi sento mai un numero, mi considero utile, sono autonomo, posso decidere come organizzare la mia giornata, vivo a contatto con la natura, ne assaporo la bellezza, coltivo l’orto, amo la pesca, ho imparato a oziare, ho capito che la noia non è poi sempre brutta, mi piace stare assorto nei pensieri».

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Lavorava a Taranto, dipendente della Marina militare, un minuscolo ingranaggio del Ministero della Difesa. «Non ero appagato, mi sentivo un numero in mezzo a tanti. Avevo voglia di cambiare».

L’occasione arriva nel 1993, con un bando per faristi. «I miei colleghi mi hanno preso per matto: hai idea della vita che ti aspetta? Sei sicuro? Fossi disoccupato avrebbe un senso, ma perché rinchiuderti in una prigione?». Cosimo decide il salto nel vuoto, e si porta con sé la moglie e la figlioletta. «Avevo tre anni di tempo per ripensarci, per me questa era una garanzia sufficiente per provare a dare una svolta».

Capo Ferro è un avamposto di solitudine che si tuffa nel mare, una torretta bianca che sovrasta una scogliera alta 52 metri. La sua rasoiata luminosa nella notte è un appiglio di sicurezza per aerei e navi che solcano le Bocche di Bonifacio.

«Sono arrivato in pieno inverno. Il primo impatto è stato traumatico. Provenivo da Taranto, 300mila abitanti, e d’improvviso mi ritrovavo catapultato in un luogo dove, fino all’estate, non c’era anima viva». La natura è selvaggia, con certi tramonti è capace di fare il pieno di bellezza, ma spesso sa essere feroce: «Il lato romantico del mio lavoro in quelle giornate vacilla. Quando il maestrale sferza a cento chilometri orari e il mare è in tempesta, non ti resta che blindarti nella tua piccola fortezza. Chiudi le finestre, ti isoli completamente, a volte le condizioni sono così estreme che manca anche la luce. Ti senti davvero isolato dal resto del mondo».

L’inverno è un tirocinio esistenziale duro: le giornate rischiano di scivolare con serialità, le mattine si spalancano con il deserto sociale, in una località spenta come Porto Cervo a febbraio. «Lavoro dalle 8 alle 14 nel faro. Controllo che tutto funzioni alla perfezione, faccio in modo che di notte il sistema automatico di illuminazione non si inceppi. Poi scendo le scale, esco, faccio dieci metri ed entro nella mia abitazione». Casa e lavoro sono appiccicati, la routine nei mesi freddi è inscatolata in pochi metri quadrati. «Il bello è che io amo la compagnia, ho molti amici, se posso non mi rinchiudo dentro quattro mura. Però so star bene anche con me stesso. Certo, quando c’erano mia moglie e mia figlia, accanto a me, prima della separazione, era più semplice. La mia non è una vita così semplice da condividere. Ora anche mia figlia è diventata grande e vive da tutt’altra parte. Però ogni tanto viene a trovarmi e per lei, questo piccolo luogo di pace, rimane un paradiso, pieno di solitudine ma anche di ricordi bellissimi. Si impara ad apprezzare il poco che si ha, a usare la fantasia, a parlare, a leggere un buon libro, a rilassarsi con un film, anche a divertirsi con una semplice partita a carte». Con i social, poi, è tutto più semplice, e anche l’isolamento diviene molto più rarefatto.

«Uso facebook, mi tengo in contatto con i miei amici. La mia vita mi piace ancora, e non rimpiango affatto di averla scelta. Non sono un uomo dalle grandi pretese, il mio motto alla fine è questo: oggi è stato oggi, domani potrebbe andare meglio, ma non è detto».

Anche la felicità, in fondo, così come la solitudine, è una capacità che può essere allenata. Il sapersi accontentare, è una base di partenza, e il faro di Capo Ferro è un perfetto campo di addestramento: se non proprio per la felicità, almeno per quel surrogato che si chiama quiete interiore.

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