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Olbia

Il ritratto

Imprenditore del vino, il suo vermentino il più caro d’Italia: chi è Emanuele Ragnedda

Imprenditore del vino, il suo vermentino il più caro d’Italia: chi è Emanuele Ragnedda

Figlio di Mario, uno dei fratelli Ragnedda che creò la cantina Capichera nota in tutto il mondo

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Arzachena Una famiglia conosciutissima. Sinonimo di vermentino, di centinaia di ettari di terra trasformati in vigna. Ad Arzachena forse la più nota di tutte. Emanuele Ragnedda è il figlio di Mario, l’uomo che, negli anni Settanta, si rimboccò le maniche per dare forma e sostanza a una delle cantine più prestigiose in assoluto: Capichera, infine venduta nel 2022. Lo zio Alberto, invece, è stato sindaco di Arzachena dal 2012 al 2017. Emanuele, che risulta indagato per la scomparsa della 33enne di Castelsardo Cinzia Pinna, aveva comunque deciso di creare un qualcosa di suo già alcuni anni prima della vendita di Capichera.

Nel 2016 fondò così Conca Entosa: sette ettari di vigna nelle campagne di Palau – tra graniti e macchia mediterranea, a due passi da una tomba dei giganti – per seguire in qualche modo le orme del padre. Per sfondare anche lui nell’universo della viticoltura. Due anni fa, quasi all’improvviso, finì al centro di un tormentone mediatico quando una delle sue produzioni conquistò il “titolo” di vino più caro d’Italia. Il prezzo? Tra i 1.300 e i 1.400 euro a bottiglia. Non proprio spiccioli, insomma. Si trattava dell’annata 2021 del “Disco volante”, un vermentino Igt – Isola dei nuraghi prodotto in edizione limitata. Poco più di mille, infatti, le bottiglie messe in vendita. Nessuno scandalo, per lui. Emanuele Ragnedda, un po’ infastidito dal clamore mediatico, non smentì il prezzo e, in una intervista alla Nuova, sottolineò il fatto che è in realtà il mercato a decidere il prezzo, non il produttore. «Non ci siamo discostati da una valutazione oggettiva sui costi di produzione, come qualsiasi prodotto, ma poi c’è il valore che attribuiamo al nostro lavoro – spiegava Ragnedda –. Il vino si attesta sui valori dei rossi della Borgogna francese, perché questo vermentino è in purezza, creato con la combinazione di quattro cloni e il valore del prodotto si paga. Mi dà fastidio che sia sempre il produttore ad occupare il gradino più modesto nella catena del valore, crediamo che sia giusto per l’agricoltore avere margini più alti nel settore primario, rispetto a chi magari sfrutta la Sardegna solo tre mesi l’anno». E poi ancora: «Ho letto commenti sprezzanti sui social, non ho voglia di rispondere, perché la regola base è che il valore di un prodotto equivale a quello che il mercato è disposto a pagare, accetterei critiche se avessi un unico vino, ma mi infastidisce che le stesse persone che criticano un settore primario come quello agricolo, mai abbastanza valorizzato, sono poi disposte a spendere in un locale 500 euro per una bottiglia che ne vale 40 al supermercato. Chi stabilisce che i vini sardi non valgano i francesi? Valorizziamo le nostre produzioni, è arrivato il momento di scegliere da che parte stare».

Prima del caso della ragazza di Castelsardo scomparsa a Palau, il cognome Ragnedda era già finito, suo malgrado, al centro di una maxi inchiesta e poi di un lungo processo. Era il caso della vendita all’asta giudiziaria di Villa Ragnedda, a Baja Sardinia, appartenuta al vulcanico imprenditore Sebastiano Ragnedda, nonno di Emanuele. Secondo l’accusa, la villa era stata acquistata da due magistrati a un prezzo di favore. Inchiesta che, per quest’ultimo motivo, aveva praticamente devastato il Tribunale di Tempio, dato in pasto all’opinione come luogo di malaffare. Alla fine, però, tutti assolti: nessuna collusione tra gli imputati e nessun condizionamento nella vendita all’asta della villa. (d.b.)

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