La Nuova Sardegna

Coronavirus, il market come simbolo della fobia

Antonietta Mazzette
Fila al supermercato (foto Mauro Chessa)
Fila al supermercato (foto Mauro Chessa)

In tempi di segregazione da Covid 19 si rafforza il senso sociale insito nel mangiare

30 marzo 2020
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Da settimane circolano su Internet immagini di lunghe file di persone che con i loro carrelli aspettano pazientemente davanti ai centri commerciali; file talvolta ordinate e rispettose del canonico metro di distanza, talaltra no. Quando sabato 21 marzo prima ancora delle ultime restrizioni del governo centrale, in ordine sparso presidenti di regione e sindaci hanno annunciato la chiusura domenicale di questi negozi, abbiamo assistito all’allungamento esponenziale di queste file. Dalle mie finestre vedo l’entrata del supermercato di quartiere e ho constatato come dalle otto del mattino fino alla chiusura serale anticipata alle diciannove, non ci sia stato un attimo di tregua: è stato un flusso continuo di persone stracariche di generi alimentari vari.

Perché non stanno funzionando le rassicurazioni delle istituzioni, ai diversi livelli, sul fatto che i generi di prima necessità non scarseggeranno? E ancora, davvero queste persone non avevano di che preparare i pasti per il giorno successivo? Per ciò che riguarda il primo interrogativo, osservo che le rassicurazioni delle istituzioni in merito ai beni di prima necessità sono state accompagnate, finora, da messaggi contraddittori provenienti da diversi livelli di governo, anche rispetto ai decreti del Presidente del Consiglio e alle avvertenze della Protezione Civile. Mi riferisco al fatto che presidenti di regione e anche molti sindaci abbiano emesso le ordinanze restrittive più diverse. Insomma, anche in tempi di emergenza gli italiani hanno assistito a una sorta di “fai da te locale”. Questa pluralità di decisioni, di fatto, ha accresciuto la paura in gran parte della popolazione, piuttosto che rassicurarla. Ma quello della paura è solo un aspetto, pur importante, del fatto che le persone continuino ad affollare i punti vendita di generi alimentari.

Un altro aspetto è legato a un modello sociale che da alcune generazioni è insito nel nostro modo di essere. E vengo al secondo interrogativo. Se ognuno di noi decidesse di sperimentare quanti giorni impiegherebbe a consumare il cibo che ha a casa, probabilmente scoprirebbe che di giorni ne passerebbero molti. Naturalmente escludo da questa ipotetica sperimentazione i tanti poveri che il cibo non lo avevano neppure prima e che oggi sono ancor più penalizzati per le grandi difficoltà che i servizi sociali e i volontari hanno in termini sia di mobilità, sia di acquisizione di beni. Molti ripetono da giorni che siamo in guerra, anche se considero improprio l’uso di questo termine, non ultimo perché sono ben poche le persone che in Italia hanno davvero contezza di che cosa sia una guerra o perché molto avanti in età, oppure perché hanno partecipato alle tante missioni di pace nel mondo e hanno visto da vicino che cos’è una guerra. C’è una pandemia - non la prima neppure per l’Occidente in tempo di pace - dalla quale pare che possiamo difenderci stando a casa.

Con ciò non voglio banalizzare il fatto che la nostra libertà di movimento sia stata annullata quasi del tutto, e ciò incide anche sul bisogno di disporre di più cibo di quanto non ne serva realmente. Ma il cibo non è solo una necessità volta alla soddisfazione di un bisogno primario (escluso che per i poveri), è un vettore di molti simboli di cui il consumatore riesce ad appropriarsi, a seconda delle sue capacità culturali oltre che finanziarie. È un vero e proprio oggetto del desiderio. Per il nostro modello sociale le pratiche del cibo comprendono un insieme di azioni che si fondano su diversi fattori culturali ed è anche un mezzo essenziale che costruisce relazioni e legami tra soggetti che stanno dentro e fuori la famiglia. In tempi sospesi di chiusura forzata, il cibo rafforza questo elemento di socialità, anche virtuale (ci si scambia immagini conviviali attraverso la rete), pur essendo costruito esclusivamente all’interno delle pareti domestiche, al pari della musica e dei canti dai balconi. [COPYRIGHT]©RIPRODUZIONE RISERVATA

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