La Nuova Sardegna

Il parroco e la diga: così don Pietro Casu raccontò in un romanzo la prima grande modernizzazione della Sardegna

Umberto Cocco
La diga di Santa Chiara
La diga di Santa Chiara

I Comuni di Ula Tirso e Berchidda ristampano "Aurora sarda", ambientato durante la costruzione della diga di Santa Chiara. Un'opera di cui il prete seppre vedere la portata innovativa e che invece raccolse la diffidenza di Antonio Gramsci, nato a pochi chilometri da lì

18 dicembre 2020
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Tornerà nel 2021 il ricordo di Pietro Casu, c'è un posto per il traduttore in sardo della Commedia di Dante nelle celebrazioni per i settecento anni dalla morte dell'Alighieri. Ma anche il 2020 si chiude con un'interessante rievocazione del prete scrittore, per opera dell'associazione Paesaggio Gramsci e di quella costituita dagli eredi di Casu che insieme con i comuni di Ula Tirso e Berchidda hanno ristampato in alcune centinaia di copie anastatiche il suo romanzo Aurora sarda, secondo di una trilogia non conclusa e cominciata con il più celebre Notte sarda.

Pubblicato nel 1922 da un editore di Cagliari, mai ristampato da allora, il romanzo torna nelle librerie a cento anni dalla costruzione della diga del Tirso, nel cui cantiere Casu ha ambientato la storia. Giudicato anche severamente, per esempio da Brigaglia - per «l'impianto vagamente deleddiano», per l'uso dell' «italiano come una vera e propria lingua straniera, con quella ossessione del vocabolario “inesistente” (...) che è di molti romanzieri sardi suoi coetanei» - Aurora sarda ha tuttavia un enorme valore storico perché il suo autore vede insediarsi nel 1916 il cantiere di Santa Chiara, sopra la gola del Tirso fra Ghilarza e Ula, durante i suoi viaggi proprio a Ghilarza da richiesto predicatore in sardo alle messe solenni per le feste importanti.

Capisce che si sta giocando in quella vallata interna un passaggio decisivo della storia della Sardegna, della modernizzazione che del resto toccherà presto anche la piana sotto il suo Limbara, con lo sbarramento del Coghinas nel territorio di Oschiri. E qui è la sua cultura, lo sguardo attento all'evoluzione politica e sociale dell'Italia e del Mezzogiorno, che lo mettono in condizione di capire che una storia di fantasia come quella che immagina tra i paesi lungo il Tirso e il cantiere, può mostrare sullo sfondo ed esemplificare i conflitti che si agitano sulla scena più grande dei primi del Novecento: la spinta all'innovazione delle classi dirigenti liberali e socialiste, il meridionalismo di Nitti e Omodeo, il riformismo di Cocco-Ortu in Sardegna, le resistenze dei conservatori e del localismo contadino arretrato e isolato, e anche il suo cattolicesimo intransigente apre spiragli alla comprensione del mondo e delle inquietudini sociali, a volte - sembra in Aurora sarda - suo malgrado.

Vede le forti resistenze, la cupa opposizione agli espropri dei terreni della valle da parte dei pochi ricchi proprietari della zona, ma intanto che a casa di uno di loro – Innassiu Ligas, a Ula - le sue stesse nipoti tradiscono presto la curiosità per il nuovo, sino agli invaghimenti, ai primi amori, per l'ingegnere continentale biondo che viene a trattare il prezzo dell'esproprio nella stanza buona del palazzotto del vecchio e – nel caso di una seconda nipote – per l'avvocato socialista che a Santa Chiara arringa i lavoratori invitandoli allo sciopero per rivendicare diritti.

Al di là della predilezione evidente per l'ordine e la religione costituiti, i devoti cattolici che popolano la scena, la messa quasi in ridicolo dei socialisti e degli anarchici - rappresentati sempre come in preda a rabbia e ubriacature, avvinazzati e violenti - Pietro Casu non ha dubbi su quale sia l'aurora per la Sardegna, fra il conservatorismo proprietario, la povertà culturale e umana dei piccoli paesi arroccati sulle sponde del fiume dal quale le comunità scappavano, chiuse nelle loro dinamiche a volte violente, fra furti di bestiame e faide, e la Sardegna con i suoi «villaggi ridesti a una nuova speranza», il «miracolo di resurrezione» per opera dell'uomo (e della Provvidenza) che il sacerdote intravede anche al di là delle vallate interne e della pianura campidanese.

La scena dove la storia del romanzo si svolge è a un'ora di distanza a piedi da Ghilarza. Antonio Gramsci si è spinto spesso a quel bastione, bambino e adolescente. Negli anni in cui si comincia a costruire la diga è però nella inquieta Torino, dove studia, scrive, fonda e dirige giornali, è un dirigente politico di primo piano, guarda alla rivoluzione bolscevica e agli sconvolgimenti in Italia e nel mondo, sta per fondare e dirigere il Partito comunista d'Italia. Torna anche nei suoi brevi rientri da Torino a quelle vallate attraversate dal Tirso, a Canales, a San Serafino. Ne rievoca luoghi, vegetazione, animali, in molte lettere, nella favole che racconta ai figli, nei giochi, come continuerà a fare scrivendo a casa dal carcere.

Nel 1920 perde una sorella, Emma, poco più che trentenne, impiegata come contabile nel cantiere di Santa Chiara, morta sia pure a casa e per opera della febbre spagnola. Eppure Nino non fa mai cenno alla diga del Tirso che – oltre a sconvolgere quella campagna amata e il suo paese di origine, dove vive la sua famiglia adorata - è la più grande infrastruttura decisa dal governo dei liberali con la forte spinta dei social-riformisti di Turati e Omodeo, finanziata con i capitali della Bastogi e della Banca Commerciale Italiana.

Solo una volta, sul retro di una cartolina che raffigura la diga ormai finita di costruire e che la cognata Tania gli procura quando è in carcere, chiede, con evidente diffidenza, alla madre: «E la diga sul Tirso, è servita a qualcosa?». Forse è proprio la partecipazione da protagonisti dei detestati ex compagni socialisti a quella fase politica che lo riempie di ostilità e gli suggerisce il silenzio per mascherare l'ostilità.

Così è toccato a un sacerdote, a un parroco, che viene a predicare al suo paese, nella parrocchia di San Palmerio a poche decine di metri da casa del grande rivoluzionario (e osserva fra l'altro la sommersione del piccolo villaggio accanto, Zuri) lasciare di quegli anni e di quella temperie un ricordo che quasi nemmeno più l'opera riesce a rievocare, semi-sommersa com'è, abbandonata, inaccessibile anche ai visitatori, attrazione per i fotografi delle rovine.

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