La Nuova Sardegna

I morti sul lavoro: vite spezzate e diritti dimenticati

Daniela Scano
Il funerale a Ossi del giovane Salvatore Piras morto sul lavoro (foto Ivan Nuvoli)
Il funerale a Ossi del giovane Salvatore Piras morto sul lavoro (foto Ivan Nuvoli)

Nei primi 100 giorni dell’anno in Sardegna ci sono state quattro vittime: non sono statistiche, ma vite perdute

01 maggio 2022
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Cosa si deve fare perché quella del 1° Maggio non sia solo una delle tante giornate internazionali dedicate a una emergenza sociale? Perché questo accada bisognerebbe una volta per tutte trasformare le parole in azioni concrete, risolutive, rispettate da tutti. L’amara verità è che il 2 maggio si sta già parlando d’altro. La ferita, però, resta aperta. Le ambulanze che ogni giorno trasportano i feriti negli ospedali, le bare portate a braccia ai funerali ci ricordano che di lavoro si continua a ferirsi e a morire. Le norme sulla sicurezza sono troppo spesso optional sia per le aziende sia per i lavoratori costretti a chiudere un occhio e a non pretendere troppo in cambio di uno stipendio.

Il bisogno di una occupazione crea da sempre ambigue complicità sul fronte delle regole. Le lezioni della storia vengono presto dimenticate. Quella del 4 maggio 1886, per esempio. A Chicago, nel terzo giorno di uno sciopero generale proclamato dai sindacati negli Stati Uniti, undici manifestanti furono uccisi mentre protestavano contro la totale assenza di diritti e contro le disumane condizioni di lavoro. La giornata del 1° Maggio, scelta in memoria di quella strage, è quindi un monito a non indietreggiare mai sul terreno dei diritti conquistati da chi ci ha preceduto a costo della sua vita. E invece centotrentasei anni dopo, in Italia, in Sardegna, uomini e donne di tutte le età continuano a soffrire perché il lavoro non ce l’hanno oppure perché il lavoro li uccide, li ferisce, li fa ammalare in situazioni insidiose che basterebbe poco prevenire. Sarebbe sufficiente rispettare le leggi che già esistono. Sono buone leggi, il fatto è che troppi le aggirano.

Salvatore Piras è l’ultima vittima di questa strage senza fine. Avrebbe compiuto 23 anni il giorno di Pasquetta e invece tre giorni prima è morto in un cantiere a Sorso. Sarà l’inchiesta a dire se, e chi, e come, qualcuno ha sbagliato. Un giudice scriverà una verità processuale che non restituirà la pace a chi Salvatore lo ha conosciuto e lo ha amato. Nessuna sentenza potrà mai restituire il calore di un abbraccio. Quello dei familiari è il dolore inconsolabile di chi da adesso in poi dovrà conservare nitido negli anni il ricordo. Per loro, semplicemente, oggi Salvatore dovrebbe essere vivo e divertirsi come tutti i ragazzi della sua età. Invece è morto, e non doveva accadere. Salvatore non avrà un futuro, ed è dovere di tutte le istituzioni dare un senso alla sua morte facendo in modo che non accada più a nessun altro. La tragedia di Sorso ha fatto salire il numero degli infortuni mortali e ha portato la Sardegna in una posizione alta nelle statistiche dell’Inail che dicono quanto l’isola sia messa male nella media nazionale. E dire che il primo dato farebbe ben sperare. Anche se è elevato, infatti, il numero degli infortuni totali denunciati nel primo trimestre del 2022, il 45,7 per cento in più rispetto al 2021, è pur sempre di due punti inferiore rispetto al 47,6 nazionale. Ma è terribile che, nei primi cento giorni del 2022, in Sardegna ci siano stati quattro morti (una vittima nel 2021) e che le malattie professionali siano aumentate del 26,8 per cento contro il 3,6 per cento nazionale. Non sono solo numeri, si tratta di vite umane spezzate o di persone in grave difficoltà. Le statistiche parlano di Salvatore che a Pasquetta non ha compiuto 23 anni e che resterà per sempre il 22enne uscito di casa una mattina come tutte le altre per andare a guadagnarsi, lavorando, la dignità, il reddito e la libertà di decidere cosa fare del proprio futuro. Quanti altri uomini e donne dovranno entrare in aridi algoritmi prima che i cantieri e le fabbriche siano luoghi sicuri al cento per cento? Azzerare il numero delle vittime è un obbligo morale.

La cultura della sicurezza deve essere una opera collettiva dell’ingegno dei governi, delle scuole a indirizzo tecnico e professionale, degli istituti che si occupano di formazione dei datori di lavoro e dei dipendenti, delle aziende di tutte le dimensioni. Il concetto della sicurezza deve scorrere nelle vene tutti i giorni dell’anno, non solo il 1° Maggio. La fine di Salvatore e di tutti gli altri morti come lui è inaccettabile in quella che il bellissimo articolo 1 della Costituzione definisce “una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Il 1° Maggio potrà essere davvero un giorno di festa e di gioia solo quando nessuno morirà mentre si guadagna il pane. Non oggi, quindi.

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