Insularità, ma non facciamola diventare una nuova voce di bilancio
Il rischio dell’ennesima forma di assistenzialismo identitario
Ci sono, evidentemente, delle deliberazioni che ancora questo parlamento, così diviso, può approvare all’unanimità. Mi riferisco all’inserimento nella nostra Costituzione dello status di insularità per la Sardegna e le altre isole italiane. A pensar male, verrebbe da dire che se una decisione è tanto unanime, proprio in piena campagna elettorale, vuol dire che la si ritiene per lo meno innocua dal punto di vista degli assetti futuri. Altre determinazioni, per esempio lo jus scholae, sono state giudicate “divisive” e quindi rigettate senza appello.
È successo spesso che un Parlamento in uscita abbia promulgato leggi in extremis, e nessuna di queste, sfido a una ricerca d’archivio sull’argomento, era considerata una legge cogente. Il riconoscimento dello status di insularità in questo senso potrebbe apparire come una specie di specchietto per le allodole. Da una parte l’attuale Governo Regionale Sardoleghista gioisce come se quest’unanimità fosse una conquista esclusiva e, oserei dire, prioritaria della sua azione politico amministrativa, oltre si intende quella di trascorrere questi anni dal suo insediamento a ripristinare il mosaico delle direzioni e presidenze dei nostri innumerevoli enti locali.
Questo riconoscimento unanime di un Parlamento ancora virtualmente di marca progressista sarebbe dunque un fiore all’occhiello della Giunta Solinas, che in realtà ha acchiappato in corsa questa proposta che è in piedi, e circola tra i parlamentari, da assai più tempo. Un problema reale dei progressisti in questo Paese è sempre stato di fare il lavoro sporco per i conservatori.
Il caso del riconoscimento costituzionale dello status di insularità è talmente, delicatamente, impalpabile, che può costituire una base per qualunque istanza. Quella reale, e dignitosissima, di chi chiede pari opportunità, ma anche quella vittimista e lagnosa di chi usa la Costituzione ogni volta che si devono coprire le proprie mancanze. Un’evanescenza che fa di questa risoluzione il territorio perfetto per il teatro della pax preelettorale. Prima della battaglia col coltello tra i denti. A leggere le prime comunicazioni in merito quello che balza agli occhi è proprio questa duplice lettura dell’avvenimento. Chi esalta il riconoscimento di un dato di fatto e cioè che la Sardegna è un’isola per via costituzionale; e chi, scetticamente io credo più realisticamente, frena gli entusiasmi, affermando che un riconoscimento non determina necessariamente un cambiamento, specialmente di fronte a un pensiero politico debole, se non flebile.
L’insularità come status si potrebbe trasformare in un ulteriore punto a favore di chi percorre da troppo tempo la strada dell’assistenzialismo e cioè l’ausilio per legge anche quando alla lagnosità e vittimismo diffusi, e spesso strumentalizzati, sarebbe meglio sostituire un orgoglio che sia reale e non di facciata o, peggio, folk. Si pone cioè la solita annosa questione che ci contraddistingue: le questioni francamente identitarie, come la lingua, come le tradizioni, come la memoria storica, ci interessano solo quando qualcuno le istituzionalizza e ci finanzia per interessarcene? O valgono in quanto tali come patrimonio inalienabile nel contemporaneo, genetico, non folklorizzato, non accademizzato, non garantito e reso appetibile da una voce di bilancio?
C’è un punto di vista corrente, populista e pericoloso, in cui vale la teoria che la democrazia consista nello sfruttare a proprio vantaggio leggi che sono di tutti. Dobbiamo vigilare perché questa determinazione diventi l’espressione di un’autostima autentica, e non un’altra mammella da spremere finché c’è latte.