La Nuova Sardegna

Rischio idrogeologico

Ritardi colpevoli, non “tragiche fatalità”

di Daniela Scano
Ritardi colpevoli, non “tragiche fatalità”

I numeri della nostra inchiesta parlano chiaro, chi non è stato colpito dalla tragedia continua a comportarsi come se non dovesse verificarsi mai

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Acqua, fango, lacrime, sangue. Quante volte, un crollo o un’alluvione hanno sommerso e trascinato via vite umane? È accaduto tante, troppe volte, e ogni volta qualcuno (tutti) pontificava che quel dramma si sarebbe potuto evitare con un’attenta pianificazione dei rischi idrogeologici.

Verissima, ma inutile constatazione. Mai che a questa affermazione abbia fatto seguito la confessione di una noncuranza collettiva. Perché quando le case crollano è colpa di tutti, anche se a pagare restano in pochi. Questa inchiesta della Nuova Sardegna parte dalla convinzione che dei problemi bisogna parlare prima che diventino emergenze. Parlarne prima affinché non ci sia un “dopo”. Prevenire per non curare ferite che nessuno potrà mai rimarginare.

Quante volte dopo una alluvione, la cosiddetta “opinione popolare” ha stigmatizzato il fatto che una entità indefinita, fatta di amministrazione e apparato burocratico, non avesse previsto e opportunamente impedito con progetti e lavori pubblici che l’acqua e il fango devastassero intere comunità? Domande che ci si pone per scaricarsi la coscienza. Alle alluvioni seguono, doverose, le inchieste della magistratura e i processi che vengono celebrati anni dopo i fatti in attesa di sentenze che distribuiscano responsabilità e assoluzioni per reati di cui, in fondo, si è tutti responsabili. Perché dalla notte dei tempi si sa che la natura cerca sempre di riprendersi gli spazi che l’uomo le ha sottratto per costruire case, strade o ponti. E tutti sanno altrettanto bene che i danni provocati dall’uomo, con gli incendi e i disboscamenti, provocano prima o poi smottamenti e frane. Il fuoco, l’acqua, la terra e la pietra diventano spesso colate di distruzione e morte. Quando capita non si dovrebbe parlare di tragica fatalità: non dovrebbe farlo chi ha amministrato i comuni colpiti, chi ha costruito in territori a rischio idrogeologico, chi ha tombato fiumi e ruscelli.

I numeri della nostra inchiesta parlano chiaro, chi non è stato colpito dalla tragedia continua a comportarsi come se non dovesse verificarsi mai. Ed è questo l’errore che bisogna evitare, l’indifferenza che è arrivato il momento di rompere una volta per tutte. In Sardegna 123mila persone, un numero corrispondente agli abitanti di una città medio grande, vivono in zone a rischio di alluvioni e altre 22mila abitano in territori a rischio di frane. Basterebbe questo a trasformare i piani di sicurezza nella priorità delle tante priorità che ogni amministrazione seria sa di dover affrontare. È arrivato il momento che la sicurezza dei cittadini e delle cittadine venga messa davvero, seriamente, al primo posto nell’agenda di chi deve occuparsi di questi problemi e non lo fa, o rinvia a un tempo sospeso nella speranza che nel frattempo non accada niente di grave. Deve essere questa la speranza degli amministratori dei 41 comuni sardi che non si sono dotati di nessun piano dei rischi, degli 86 che non hanno ancora un piano comunale per il rischio idraulico e idrogeologico, dei 45 che non si sono dotati di un piano per il rischio incendi di interfaccia. L’interfaccia è quella zona dove l’area naturale e quella urbana si incontrano e interferiscono reciprocamente. Praticamente, sono interfaccia tutte le periferie urbane dei 377 comuni dell’isola. E per finire, sono 336 i paesi che non hanno un piano per il rischio di neve e ghiaccio. «Tanto in Sardegna non nevica mai» devono avere fatto spallucce le migliaia di amministratori che si sono alternati alla guida di quei comuni. Un numero che la dice lunga sul ragionamento che sta alla base della noncuranza di chi non sa programmare, sperando che vada tutto bene. E dopo, se malauguratamente ci sarà un “dopo”, potrà sempre dire che è colpa di chi non ha saputo prevedere e prevenire.

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