La Nuova Sardegna

Se lo sport diventa un male oscuro

La solitudine dei campioni

di Vanessa Roggeri

	La cerimonia funebre della pallavolista Ituma
La cerimonia funebre della pallavolista Ituma

È il crollo emotivo e psicologico a rendere i nostri eroi dello sport esseri profondamente umani, con umane fragilità e altrettante capacità di rinascita dalle proprie cadute

19 aprile 2023
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Lo sport fa bene in tanti modi, lo sanno tutti: mantiene il fisico in forma, riduce lo stress e produce buonumore grazie al rilascio di endorfine. Ma quando lo sport diventa una professione ad alti livelli, e rappresenta l’unica ragione di vita per lo sportivo, è possibile che la rigida osservanza di regole, orari e ritmi serrati di allenamento, unita agli obiettivi e alle aspettative di allenatori, sponsor, compagni di squadra e tifoserie, siano causa di una pressione talmente parossistica da compromettere l’equilibrio dell’atleta.

Sfatiamo quello che ancora oggi è considerato un tabù: circa il 25% degli sportivi professionisti soffre periodi più o meno lunghi di depressione (il 50% ne soffre a fine carriera). Un atleta allenato agli agoni olimpici è obbligato a vincere, non può avere tentennamenti o debolezze; è difficile essere un campione e riconoscere a se stessi di stare male nella mente e nell’anima, per molti è motivo di vergogna, a tal punto da chiedere aiuto quando sono giunti al limite della sopportazione. In alcuni casi, invece, lo sportivo non è proprio in grado di dare un nome al malessere. È il crollo emotivo e psicologico a rendere i nostri eroi dello sport esseri profondamente umani, con umane fragilità e altrettante capacità di rinascita dalle proprie cadute. È capitato al nuotatore Adam Peaty, che ha abbandonato le gare perché stanco e depresso, incapace di godersi lo sport per le troppe “pressioni”. Alla tennista ventitreenne Naomi Osaka è accaduto di ritirarsi da una delle più importanti competizioni al mondo perché oppressa anche lei da ansia e depressione. Ci ricordiamo bene di Simon Biles, superstar statunitense della ginnastica artistica, che nel bel mezzo di una esibizione olimpica, è stata fermata da un eccesso di stress invalidante: «voglio concentrarmi sul mio benessere mentale», ha poi ammesso con coraggio. Anche Gigi Buffon e Federica Pellegrini hanno sofferto di attacchi d’ansia e depressione per un periodo della loro carriera, e forse è stato proprio il male oscuro ad aver spinto la giovane pallavolista italiana, Julia Ituma, a buttarsi giù dal sesto piano di un hotel di Istanbul. La sua tragica morte è ancora tutta da chiarire, ma offre comunque lo spunto per riflettere sull’aura di apparente invincibilità che circonfonde i campioni dello sport agonistico.

Agonismo significa lotta, spirito combattivo, competizione solenne; nell’Antica Grecia l’atleta si preparava alla guerra ed era simbolo di virtù, bellezza, forza, coraggio. Nell’agone, attraverso la vittoria, rendeva grande se stesso e la squadra o il Paese che rappresentava: oggi come ieri, vincere o perdere hanno la doppia valenza sia personale che comunitaria. L’adrenalina della sfida tocca il picco massimo, essere battuti, dopo tanti sacrifici, non è un esito contemplato. Nel momento in cui i risultati tanto agognati però non arrivano, perdere l’equilibrio, quando già si è sfibrati, è molto facile. In passato, l’atleta greco non gareggiava per divertirsi ma soltanto per ottenere successo, e “successo” ad ogni costo è la parola chiave che tutt’ora domina la mentalità agonistica, tanto da confondere il concetto di sconfitta temporanea – che in teoria dovrebbe circoscriversi alla singola gara – con quello di fallimento personale. Lo sport agonistico non è per tutti, e gli atleti non sono macchine impeccabili. Possedere un fisico allenato fino allo spasimo, battere record e vincere medaglie su medaglie non conta nulla se mente e spirito non corrono di pari passo nell’acquisire forza, resistenza e giusta cognizione del fatto che superare i propri limiti non sarà mai più importante dello stare bene e in salute. Essere sconfitti durante una gara fa parte del gioco. Un campione sportivo che dall’agonismo passa all’agonia, alla sofferenza, non si gode più la competizione e arriva a odiare ciò che più ama fare al mondo: questo è in realtà il vero fallimento da evitare.

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