La Nuova Sardegna

Oristano

La storia di Beahane, l’eritreo dall’inferno del Sahara a Cabras

di Claudio Zoccheddu

È l’unico migrante che ha scelto di rimanere qui. Spera di trovare un lavoro e racconta la sua storia Sedici mesi di sofferenze per arrivare dal Corno d’Africa alle coste libiche, poi la traversata

14 luglio 2014
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CABRAS. Ha il fisico del maratoneta, ma la sua corsa è durata molto di più dei canonici 42 chilometri e 195 metri. Beahane è un profugo eritreo di 24 anni che è arrivato a Cabras con il primo gruppo di migranti ed è l’unico che ha scelto di rimanere da queste parti. Gli altri sono spariti da tempo. Beahane, invece, non ha nessuna intenzione di continuare il suo viaggio e ha già iniziato a compilare le pratiche per ottenere il permesso di soggiorno, nella speranza di riuscire a trovare un lavoro: «Magari come muratore», si augura. L’importante è non rimettersi in cammino. Un desiderio legittimo per chi ha impiegato un anno e mezzo per coprire la distanza che separa il Corno d’Africa dalle coste della Libia. Un tempo inimmaginabile anche per il continente africano. A rendere tutto più comprensibile, e drammaticamente verosimile, ci pensa proprio Beahane. Il ragazzo mastica qualche parola d’inglese ma per spiegarsi meglio si fa aiutare da Ojbeide, un nigeriano con cui comunica mischiando l’idioma tigrino con qualche parola d’arabo e d’inglese. Il risultato è un romanzo in presa diretta. «Sono partito dall’Eritrea alla fine del 2012, quando ho finito il servizio militare. Ero stanco della fame e della guerra», attacca Beahane, »volevo attraversare l’Etiopia per raggiungere il Sudan e poi il Sahara”. Il ragazzo non sapeva che gli etiopi raccoglievano i profughi eritrei senza documenti, come lui, in piccoli lager assolati. Una leggerezza che è costata a Beahane la prima lunga sosta. Dopo due mesi di prigionia, però, l’idea di stare ancora nel campo era inaccettabile. Per questo, alla prima occasione, è scattata la fuga che è costata sette giorni di cammino sotto il terribile sole del Sudan: «Avevo una razione d’acqua di un bicchiere al giorno. Il pranzo e la cena erano due pacchetti di crackers». Un razionamento che è durato fino al penultimo giorno di cammino. Poi, fame e sete per 48 lunghissime ore fino a un piccolo paese in territorio sudanese, uno di quei luoghi nati dal nulla perché tappe forzate delle carovane di camion che attraversano il Sahara. Sono questi i convogli che spostano le masse di migranti verso la costa e sul rimorchio di un camion Beahane è riuscito a trovare un passaggio. Forse la maniera peggiore per affrontare un viaggio lungo cinque giorni attraverso il Sahara, un’esperienza in cui si toccano i limiti della sopportazione umana. Dopo l’incubo del deserto, la Libia. Per i migranti è il trampolino di lancio verso l’Europa, per quelli che hanno i documenti. Chi non li ha entra nell’anticamera dell’inferno: “Mi hanno arrestato appena sono sceso dal camion”, ricorda Beahane, “non avevo i documenti e per questo ho fatto sei mesi di carcere”. Un’esperienza difficile da descrivere, anche per chi ne aveva già viste tante. L’unico aggettivo che gli sfugge dalla bocca ha il sapore dell’eufemismo. «Unhappy, infelice». I sei mesi più lunghi della vita del ragazzo sono terminati durante una rivolta dei prigionieri, un’occasione da non perdere per mettere a segno la seconda fuga. Beahane è riuscito nel suo intento ma si è trovato senza documenti e senza soldi. E per salire sui barconi servono mille dollari americani. Una cifra che è riuscito a mettere assieme dopo aver lavorato nei campi per otto mesi, senza mai togliere un solo dollaro dal gruzzolo sudato per pagare il biglietto per il paradiso. Poi, il gran giorno: Beahane si è imbarcato su un vecchio motopeschereccio ed è stato ripescato in mezzo al Mediterraneo da una fregata della marina italiana, che l’ha scaricato in Sicilia. Poi, il trasferimento a Cabras e l’idea di finire un viaggio che vale una vita.

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