La Nuova Sardegna

Oristano

«Mio figlio gay deve morire»

di Enrico Carta
«Mio figlio gay deve morire»

Il testimone ripete al processo la frase che pronunciò la madre della presunta vittima

04 febbraio 2020
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ARBOREA. «Lui e quelli come lui devono morire tutti». Per la madre il peccato più grande commesso dal figlio era stato quello di essersi dichiarato omosessuale e di aver cominciato una vita diversa rispetto a quella che sino a quel momento aveva fatto, una vita che lo vedeva sposato e con un matrimonio che gli aveva portato in dono due bambini. Quel «Lui e quelli come lui...», ripetuto ieri in aula da un testimone al processo che vede imputati per stalking la madre e il fratello del 44enne, fu pronunciata quando la donna seppe che il figlio era andato col nuovo compagno alla cerimonia di un’unione civile tra persone dello stesso sesso. Non c’era solo l’amico di famiglia di fronte a lei, perché quelle parole furono sentite dal nipotino della donna, il quale difese il padre e chiese alla nonna di non offenderlo.

È un altro della lunga serie di episodi che i testimoni, chiamati a deporre dal pubblico ministero Daniela Caddeo, vanno ripetendo da due udienze al processo che si celebra di fronte alla giudice Federica Fulgheri. La volta scorsa era stata la presunta vittima a ricostruire quasi due anni di persecuzioni che l’avevano costretto ad allontanarsi da casa e a perdere ogni rapporto con la madre e il fratello pur di mantenere vivo quello col suo attuale compagno e non dover nascondere la propria omosessualità. Ieri invece sono stati la moglie, una parente di famiglia, il compagno e un amico di famiglia a raccontare l’incubo vissuto in prima persona oppure attraverso i dolori che hanno dilaniato molte persone.

È stato un ribadire quanto già era stato dichiarato dal 44enne, parte civile al processo assistito dall’avvocatessa Romina Marongiu. La rivelazione alla madre di quell’aspetto della propria vita avrebbe avuto un seguito con una serie di offese, atti persecutori, violenze verbali e persino fisiche quando un bastone sarebbe stato usato come arma per punire il figlio, definito per lo meno «pervertito». Il livello delle ingiurie però sarebbe stato molto più alto e il rifiuto e lo scontro quotidiano avrebbero avuto effetti devastanti sulla vita di tutti.

La moglie della presunta vittima ha ricordato i momenti drammatici vissuti tra il 2016 e il 2018, con la paura del suicidio del marito che incombeva; coi due bambini che avrebbero assistito ripetutamente alle sfuriate della donna; con le minacce di morte che sarebbero state proferite dal fratello e gli auspici della madre che ripeteva che avrebbe preferito un figlio sottoterra che omosessuale.

L’attuale compagno ha poi raccontato di essersi continuamente sentito sotto torchio sin da quando la donna aveva iniziato a intuire tutto e che il bastone sul portone di casa sarebbe dovuto servire per una lezione da dargli qualora si fosse presentato da loro – madre e figlio vivevano in una casa a due piani –, mentre la parente e l’amico di famiglia hanno raccontato, oltre che degli insulti, anche della ferrea volontà della donna di non riallacciare alcun tipo di rapporto col figlio al quale avrebbe poi reso la vita impossibile.

Stalking? La sentenza è ancora lontana, intanto gli avvocati difensori Romina Pinna e Gesuino Loi hanno insistito su alcuni aspetti della vicenda chiedendo ripetutamente ai testimoni se i problemi esistenziali e il cambio di abitudini e di vita, compreso il trasferimento a Oristano, fossero legati agli atti persecutori o fossero più una necessità dettata dall’inevitabile sconvolgimento a cui andarono incontro i protagonisti della storia.

La prossima udienza è fissata per il 17 febbraio.

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