La Nuova Sardegna

Oristano

Silvano dopo 47 anni cerca i “fratelli” dell’orfanotrofio di Abbasanta

di Maria Antonietta Cossu
La struttura di Abbasanta ricordata da Silvano Fulghesu
La struttura di Abbasanta ricordata da Silvano Fulghesu

L’appello di un ex ospite del collegio Dalmasso: «Aiutatemi a ritrovarli» «Per me quei ragazzi e le suore che ci accudivano erano come una famiglia» 

24 maggio 2020
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ABBASANTA. Dopo 47 anni vuole ritrovare, riconoscere, abbracciare la sua famiglia. Una famiglia originale, perché per Silvano la famiglia e la casa dove si è cresciuti da piccoli sono rappresentati da un orfanotrofio. Lì ha trovato conforto, protezione, considerazione, valori e insegnamenti. Un rifugio sicuro nel quale stare. O ritornare, anche dopo quasi mezzo secolo. In quel luogo Silvano Fulghesu, così si chiama il protagonista di questa storia, trascorse l’infanzia; le suore e i compagni con cui condivise quella fase della vita sono stati il suo mondo.

Nel collegio Dalmasso, Silvano Fulghesu mise piede che aveva pochi mesi di vita. La madre morì dopo il parto a bordo dell’ambulanza, mentre il piccolo, nato prematuro, fu portato d’urgenza alla clinica Macciotta di Cagliari. Una volta superata la fase critica il bambino fu trasferito nel convento di Genoni. Poco tempo dopo il padre Antonio, calzolaio e proprietario di una rivendita di scarpe a Laconi, non potendolo allevare da solo, iscrisse Silvano al collegio di Abbasanta. Al tempo la struttura era considerata un’eccellenza e il vedovo affidò il terzogenito alle mani delle religiose, convinto che avrebbe ricevuto la migliore educazione e sarebbe stato seguito adeguatamente.

Il bambino rimase in istituto per nove anni. Di quel periodo oggi serba un ricordo tenero e nostalgico, frutto del calore e dell’affetto ricevuti. Verso le suore che lo crebbero e i compagni con cui visse, Silvano Fulghesu sviluppò un affetto filiale e fraterno, un sentimento talmente forte da impedirgli di recidere il cordone ombelicale con Abbasanta. A distanza di quasi mezzo secolo e ora che ha trovato la sua dimensione nel lavoro di operatore socio-sanitario, svolto con passione e abnegazione, e legandosi alla moglie Rosalba, vorrebbe riannodare i fili con il passato incrociando gli sguardi di quei bimbi ormai adulti e rivedendo i luoghi dell’infanzia.

Ha provato a indagare da solo nel tentativo di risalire all’identità dei coetanei conosciuti in istituto, ma la legge sulla privacy non ha permesso di scoprire chi fossero gli altri orfani. A quel punto ha pensato che un modo per riabbracciare gli ex compagni fosse quello di farsi trovare lanciando un appello dalle colonne della Nuova Sardegna. «Non ho foto di quel periodo e non ricordo i nomi degli altri bambini, ma mi piacerebbe rivederli perché insieme alle suore li ho sempre considerati la mia famiglia», racconta abbandonandosi ai ricordi. «Mio padre non mi parlava mai di mia madre e solo più tardi venni a sapere che per lui era un modo per impedirmi di soffrire. Nel frattempo imparai a conoscere la mamma attraverso i racconti di mia zia e di una amica. La descrivevano come un angelo».

L’assenza della figura materna fu in qualche modo colmata dall’affetto e dalle attenzioni delle religiose del convitto e di una giovane donna che lo prese sotto la sua ala. «Volevo bene a tutte, mi sentivo amato, ma strinsi un legame con suor Ines. Era come una madre. Nei fine settimana in cui Antonio, come chiamavo il babbo, non poteva venire a trovarmi, la signora Silvana di Ghilarza mi teneva a casa con sé», ricorda Silvano, che ammette di aver avuto un rapporto complicato con il genitore.

«Ho sempre avvertito una sorta di distacco nei suoi confronti, benché gli volessi bene e lui provasse lo stesso per me. Questo ha influito sulla nostra convivenza, che interruppi da adolescente per andare da mio fratello. Quando mio padre si è ammalato l’ho portato a casa con me e mia moglie, a Quartu Sant’Elena, e l’ho assistito per dodici anni fino alla sua scomparsa».

Prendersi cura degli altri per lui è una missione prima che un lavoro. Ha accudito il fratello, scomparso prematuramente, si è dedicato a lungo ai malati oncologici e successivamente ai pazienti geriatrici e ai disabili. Oggi si occupa di un’intera famiglia, con la quale vive a Porto Cervo. Quando non è assorbito dagli impegni professionali, fa volontariato esibendosi come mimo.

Una vita piena e gratificante, ma un tassello ancora manca. «I compagni di Abbasanta mi sono rimasti nel cuore, desidero tanto rivederli e visto che non sono riuscito a rintracciarli spero che leggano la mia storia e mi contattino attraverso il giornale».

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