La Nuova Sardegna

Nelle pietre di Sciola l'eco delle tragedie dei migranti

Paolo Pillonca
Pinuccio Sciola nel suo studio di San Sperate
Pinuccio Sciola nel suo studio di San Sperate

L'artista di San Sperate presenta e si prepara a esportare
le sue ultime creature, trenta sculture ispirate all'attualità

18 aprile 2011
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SAN SPERATE. I morti dimenticati escono dalle loro tombe e iniziano la danza della resurrezione, come le fronde degli alberi nelle campagne del suo paese natale rinverdite pienamente in questa vigilia di Pasqua, festa solenne del Cristo risorto. È questo il sogno di Pinuccio Sciola, lo scultore smarrito e sgomento di fronte alle tragedie che si consumano nel mondo, dal Giappone all'Africa del nord, con migliaia di morti destinati per sempre a non avere sepoltura.

Pensando all'orrore, dimentica anche il suo dramma personale di uomo dalle mani potenti e dai muscoli d'acciaio colpito di punto in bianco da un male terribile. Di fronte allo spettro della nera signora, dopo l'intervento chirurgico, Sciola ha ripreso a lavorare esattamente come prima anzi forse con più lena. E certamente con una visione del mondo contrassegnata ancora meglio dalla solidarietà fra gli uomini di buoni sentimenti.

L'artista di San Sperate cullava nell'animo questa speranza fin dai primi anni Duemila, quando - ricorda con evidente emozione - «era successo di tutto, proprio come adesso, e molti parlavano già di requiem per il terzo millennio. Poi ho letto con attenzione le inchieste del mio amico giornalista Giovanni Maria Bellu sui siciliani imghiottiti misteriosamente nel buio del nulla, documentati a più riprese da cadaveri orrendamente mutilati scoperti dai pescatori. Tutti desaparecidos, alla stessa maniera degli oppositori del regime in Argentina». L'emozione gli ha dettato perfino delle epigrafi in versi, come questa: "Una barca senza vela:/ il suo carico muto/ senza speranza/ affonda". O quest'altra: "Un guscio di barca/ affronta il mare./ Il suo carico/ di pelle nera/ ha paura./ La speranza in un altro mondo/ spesso è un'utopia". Ma la denuncia di Sciola non si limita alla creazione di versi, mestiere nuovo per lui, avvezzo a misurarsi con una materia più ostica.

Da grandi massi informi ha ricavato sepolture vagamente simili agli ingressi delle domus de janas, ne ha preparato già una trentina. E vorrebbe esporle «in qualche parte del mondo, a futura memoria di un pensiero amico».

- Perché ti colpisce tanto la realtà di oggi narrata dalla cronaca?
«Forse perché la vedo ancora più drammatica rispetto a quella del passato, forse anche perché tutto o quasi avviene a due passi da noi senza trovare un rimedio credibile, almeno finora. Mi sono chiesto come mai i giovani fuggano dalla Tunisia in numeri così impressionanti».

- Quale risposta hai trovato? Perché così tanti scappano via alla disperata?
«La maggior parte delle attività impenditoriali tunisine erano del presidente deposto Ben Ali e della sua famiglia. Una crisi di dimensioni drammatiche era inevitabile».

- Come mai oggi gli artisti non sono più in prima fila nella denuncia dei crimini, come invece erano sempre in anni non molto lontani?
«Questo è un fatto incontestabile. Oggi gli artisti sono in secondo piano, preoccupati del business. In Sardegna volevo fare qualcosa di nuovo per le stragi del sabato sera sulle strade e ne avevo parlato con i presidenti della Regione e della Provincia di Cagliari. Erano tutti d'accordo, però il mio progetto al momento è ancora fermo nei loro uffici».

- Dove trovi la forza di affrontare ancora le pietre dopo aver combattuto strenuamente contro una malattia così seria?
«Finita la convalescenza ho ripreso a lavorare con grande energia. E il sole ogni mattina mi sembra più bello di quello della penultima alba. Come si fa a restare indifferenti di fronte a queste tragedie? Quando i giovani nordafricani salgono su quelle barche, è come se il loro unico traghettatore fosse il Caronte della mitologia che trasportava i morti nelle tenebre dell'Ade».

- Come sei arrivato a tradurre l'idea in progetto vero e proprio?
«Pensando all'elemento pietra, base del pianeta. La terra è pietra dal grande potenziale mnemonico, il silenzio che nasconde accompagna da sempre l'uomo. Queste mie pietre rappresentano le tombe illacrimate, però sono sepolture aperte. Simbolicamente, la morte si riapre alla vita».

- Ma nel tuo cuore, come ami precisare, l'idea quando è nata?
«Non te lo saprei dire. Forse non ha neppure un tempo definibile, come la pietra stessa. Gli Incas dicevano: quando nacque la luce, la pietra esisteva già».

- E tu come diresti?
«Ho provato a dirlo con parole misurate alla maniera dei poeti».

- Che cosa ne è venuto fuori?
«"Quando non ero/ e non era il tempo/ quando il caos dominava l'universo/ il magma incandescente/ celava il mistero/ della mia formazione/ da allora il mio tempo è rinchiuso/ da una crosta durissima./ Ho vissuto ere geologiche interminabili/ immani cataclismi hanno scosso/ la mia memoria litica./ Porto con emozione/ i primi segni della civiltà dell'uomo/ e il mio tempo/ non ha tempo". Io sogno da anni di pubblicare un mini libretto in cui ogni capitolo abbia un titolo preso da segmenti di quel mio pensiero, seguito da sette pagine bianche per capitolo. Non c'è bisogno di altro».

- Quanto ha contato l'esperienza vissuta ad Assisi, le tue pietre davanti alla chiesa del patrono d'Italia?
«Da quando il mio rapporto con la pietra è passato attraverso San Francesco d'Assisi, che era anche un poeta, credo di avere una missione: creare una relazione nuova con la natura e la gente. Quando sistemo qualche mia scultura lungo una strada sono felice perché gli automobilisti non vedono più solo cartelloni pubblicitari ma anche quelle creazioni. Ogni tanto qualcuno mi dice: abbiamo visto pietre che sembravano tue sculture».
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