La Nuova Sardegna

«Mio figlio in cella a 15 anni per salvarsi»

di Elena Laudante
«Mio figlio in cella a 15 anni per salvarsi»

Sassari, il racconto del padre di uno dei minori arrestati dopo un furto: «Meglio saperlo in prigione che schiavo della droga»

02 settembre 2012
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SASSARI. «Sapevo che se mio figlio non fosse stato mandato in una comunità per tossicodipendenti, avrebbe fatto qualche sciocchezza. Lui me lo diceva: Papà, fammi rinchiudere, anche in un ospedale psichiatrico. Non ce la faccio più. Avevo chiesto aiuto alle istituzioni, invece non sono stato ascoltato. Ed è successo quello che temevo». Giovanni è un padre come tanti, capo di una famiglia normale, senza alcuna macchia. Di quelle che vanno fiere solo della dignità e dell’onestà che è la cifra dell’esistenza.

Da pochi mesi affronta quello che per lui è l’inspiegabile. Suo figlio non ha ancora compiuto 16 anni e già si trova in carcere, a Quartucciu, dopo tre furti (l’ultimo, solo tentato): tutti commessi, ha rivelato il ragazzino, per comprare droga. Prima qualche spinello, che fumava da quando ne aveva 13 di anni - «Ha iniziato all’oratorio», ricorda il padre. Poi, dopo il primo arresto, «in una casa famiglia ha preso a fumare droga “pesante”, eroina, e forse anche Lsd».

«È stato in quel momento - spiega Giovanni - che è iniziato il nostro incubo. Il suo umore è cambiato, diventava aggressivo, ma non perché avesse un brutto carattere. Erano le crisi d’astinenza che lo rendevano nervoso. Non ce la faceva più. A volte passava tutto il giorno a letto. Lui stesso era arrivato a proporre: vado in questura e mi faccio arrestare. Se no, vado a rubare per comprare una dose».

È per questo che Giovanni (il nome è di fantasia) dal giorno del primo arresto del suo ragazzo, il 30 marzo, quand’era stato beccato a rubare snack di cioccolato alla facoltà di Farmacologia, aveva rivolto il suo appello al tribunale per i Minori. Prima che iniziasse il processo, i genitori avevano intrapreso un percorso con i servizi sociali, che prevedeva per il ragazzo la custodia cautelare in una casa-famiglia. «Ma fin da subito avevo avvertito gli operatori: mio figlio ha problemi di droga, anche se allora fumava solo marijuana, e non può stare in una comunità aperta. Deve andare in una struttura per tossicodipendenti». A causa del suo lavoro, Giovanni conosce bene fino a che punto si può spingere un tossico. Ed è convinto come la moglie che l’approccio debba essere diretto, che un adolescente abbruttito dagli stupefacenti dev’essere curato come un drogato adulto. «Mi dissero che non c’era bisogno. Ma nella casa-famiglia i suoi problemi sono solo aumentati». Giovanni e la moglie sono certi. È stato lì, in una struttura protetta, dove però altri coetanei potevano uscire, che il loro ragazzo «ha iniziato a fumare eroina, e ad assumere pasticche di Lsd». Tanta sicurezza deriva dai certificati dei test ai quali il ragazzo è stato sottoposto. «Erano positivi agli oppiacei e ad altre sostanze. All’inizio non ce l’avevano detto, poi abbiamo visto i risultati con i nostri occhi. Non potevamo crederci». Secondo il suo racconto, il quindicenne ha iniziato a fumare eroina in una delle due comunità dov’era stato fino ai primi di agosto. «Quando è tornato a casa perché ce lo avevano affidato, l’11 agosto, abbiamo avuto la conferma di quanto rivelato dalle analisi», spiega con occhi severi che non cedono all’autocommiserazione. «Dopo tre o quattro giorni sono iniziate le crisi». Da poco più che un bambino, lo hanno ritrovato «aggressivo, quasi irriconoscibile».

Giovanni e la moglie non cercano di autoassolversi, «non stiamo dicendo che lui non ha sbagliato. Anzi, l’ho affrontato anche con parole molto dure», racconta come per rimproverarsi. «Quando ho scoperto che fumava, mesi fa, l’ho portato nei quartieri peggiori di Sassari per fargli vedere i tossicodipendenti, come li riduce la droga. Ma non è servito a nulla. Non sono riuscito ad aiutarlo, io che ho aiutato altri per la mia professione. E che da tempo cerco di inculcargli l’importanza del lavoro e il valore della vita». Suo figlio non ha mai avuto un debole per le scarpe firmate o il cellulare di ultima generazione. «Non gli davamo mai più di 5 o 7 euro, giusto per comprarsi un panino». Ma lui, dopo 12 giorni trascorsi a casa nel travaglio dell’astinenza, ha ceduto. Il 23 agosto è andato a cercare soldi nell’appartamento di qualcun altro, con due complici. «Uno è quello che poi è finito a Quartucciu con lui, ma l’altro era maggiorenne. Ha spinto avanti i due minori, mio figlio si è tagliato rompendo la finestra per entrare in casa, invece lui è scappato». E non sarà individuato. Perché il ragazzino non parla, si è chiuso in un mutismo assoluto. «Temo che qualcuno lo abbia mandato a rubare promettendogli droga in cambio». Ipotesi, al momento, senza fondamento. Ma il punto è un altro. «Perché è stato consentito che mio figlio arrivasse a questo punto?», si chiede Giovanni. «Durante un’udienza in tribunale, avevo minacciato che se non lo avessero messo in una comunità di recupero del continente (in Sardegna, non esistono strutture per minori, ndc) avrei messo le grate alle finestre per non farlo uscire. Mi hanno avvertito che rischiavo una denuncia». Impossibile pensare ad altre soluzioni. «Se lo Stato non è riuscito a curarlo, come potevo farlo io, nelle condizioni in cui era? Per mesi abbiamo aspettato una visita neuropsichiatrica, per capire se l’eroina gli abbia causato danni irreparabili. Ma non gli è mai stata fatta». Non il frutto un po’ sadico dell’esasperazione. Eppure solo ora Giovanni e la moglie sono sereni: sanno che il loro bambino, chiuso in carcere, «è al sicuro». «Il nostro legale ci ha detto che potrebbe stare dentro anche tre o quattro mesi. Per noi va bene, se non è possibile mandarlo in comunità. Purché non sia libero di farsi di nuovo. Purché non debba trovarlo per strada, ammazzato da qualcuno».

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