La Nuova Sardegna

Berlinguer, un progetto per dare all’Italia un futuro

di Alfredo Reichlin
Berlinguer, un progetto per dare all’Italia un futuro

Un volume di Giovanni Gelsomino che ricostruisce privato e vicende politiche del leader del Pci

11 gennaio 2014
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Perché sentiamo il bisogno di tornare a parlare di Enrico Berlinguer? Sono trascorsi dalla morte quasi trent'anni e da allora tutto è cambiato. Del comunismo si è sbiadito perfino il ricordo. Ma ciò che in realtà ci spinge a parlare di Enrico berlinguer sono i problemi di oggi: la crisi non solo di una economia ma della trama unitaria della Repubblica messa alla prova da una sfida che riguarda il posto della nostra nazione in Europa e quindi il destino degli italiani. Di qui la domanda: c'è nell’opera di Enrico Berlinguer qualcosa che parla non solo ai suoi compagni e amici ma a tutti coloro che cercano di ridare al Paese una idea di sé e del suo ruolo nel mondo nuovo?

La sua ossessione – posso testimoniarlo – era che, anche a causa della forza acquisita dal Pci, dell'autunno caldo sindacale e del '68 si era rotto qualcosa di profondo e che la situazione italiana – così mi andava ripetendo – era arrivata a quella tipica situazione in cui se le spinte del Paese verso il cambiamento non trovavano uno sbocco politico «avremmo subito una reazione feroce del sistema».

Questo era il senso degli articoli sul Cile. E viene da qui l'assillo di una risposta alla destra che andasse al di là degli schieramenti politici per suscitare nel Paese una riscossa democratica. Pensava a qualcosa di simile al dopoguerra e quindi a un nuovo compromesso non contingente ma storico tra le forze popolari, che consentisse di ridisegnare la costituzione materiale, di fatto, del Paese. Era un grande disegno, ed è questo che fallì: per tante ragioni. Ma ciò che ebbe un peso decisivo è il fatto che parte integrante della costituzione materiale dell'Italia era la sua collocazione geo-politica, il suo (necessario?) schieramento da questa parte della cortina di ferro. Era quindi anche il problema della collocazione del Pci, del suo rapporto con l'Urss, essendo questo un ostacolo insuperabile affinché lo stesso disegno di Berlinguer avesse uno sbocco di governo.

Berlinguer lo sapeva benissimo e perciò pose fine, nei fatti, alla "doppia lealtà". Ma lo fece senza cambiare il nome al partito e tuttavia spostando, di fatto, la collocazione politica e ideale del Pci dal campo del comunismo sovietico verso il campo delle correnti riformiste occidentali e verso i partiti dell'internazionale socialista. Penso al rapporto anche personale, di fiducia che instaurò con Willy Brandt. Si potrebbe dire che Berlinguer non cambiò il nome ma cambiò il "campo". Riconosco, però, che questo non era sufficiente. Non bastava a cambiare la mente dei milioni di uomini semplici.

Così la via (molto stretta) che Berlinguer decise di imboccare fu quella di passare attraverso una Grande Coalizione. Su questo ci fu l'intesa con Moro ma le loro prospettive erano molto diverse. Il leader della Dc pensava di consentire al suo partito di governare i "tempi nuovi" coprendosi a sinistra e difendendo quel ruolo "centrale" della Dc che egli sentiva minacciato da oscure forze interne e internazionali . Il secondo, accettava questo passaggio perché assillato dal problema di portare a uno sbocco di governo il consenso crescente che il Pci raccoglieva (34 per cento di voti), pena la paralisi, la delusione, il riflusso, le fughe in avanti verso l'estremismo.

La prova tragica che quella ipotesi non era campata in aria l'ha data il fatto che Moro è stato assassinato. E la contro prova che la posta in gioco era un po' più seria di un "inciucio" dei comunisti con i democristiani l'ha data il fatto che, subito dopo, il potere (non solo il governo) è passato in altre mani. Quali mani? È allora che finisce la repubblica dei partiti. La Dc viene decapitata, il Psi subisce quella metamorfosi che lo porterà alla catastrofe e il Pci viene chiuso nell'angolo senza più una capacità di incidere nei grandi processi di ristrutturazione ormai in atto (la mondializzazione, il neo-liberismo, la rivoluzione conservatrice). Né al governo né all’opposizione. Intanto, al potere, andava una oligarchia, un superpartito che teneva insieme i nuovi ceti e le vecchie mafie, clientele e massoneria. E accanto alle istituzioni democratiche si collocava un intreccio senza eguali di politica e affari, di denaro scambiato con il potere, una situazione nella quale si annullava ogni distinzione tra pubblico e privato, e che costituì la base sulla quale si formò prima Tangentopoli, e poi l'avvento di Berlusconi. Non era solo "moralismo" la denuncia che Berlinguer faceva della questione morale.

Quello di Berlinguer fu un grande disegno. Nonostante il fallimento di quel progetto politico, la traccia che ha lasciato quest’uomo nell'organismo politico nazionale e nelle menti degli italiani è stata grande. Non si era mai visto un omaggio funebre come quello che gli tributò l'Italia. E, soprattutto, egli parla ancora alle forze che stanno cercando di dare corpo, radici storiche e base popolare al nuovo riformismo. Parlo di quel suo sforzo tenace, quasi disperato, di guardare al di là del ceto politico, di rendere attive le forze nuove della società (le donne, i giovani, il Mezzogiorno), insomma di organizzare una nuova tappa della rivoluzione democratica italiana. Questo compito è ancora davanti a noi.

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