La Nuova Sardegna

«Quei soldi? Una tagliola»

«Quei soldi? Una tagliola»

Sentito come teste, Paolo Maninchedda racconta i propri dubbi sull’uso dei fondi

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CAGLIARI. Così com’era, quella delibera del 1993 che regolava l’uso dei fondi destinati al funzionamento dei gruppi politici regionali appariva «insidiosa» e suscitava forti dubbi sulla possibilità di finire nei guai giudiziari: «Alcuni aspetti di quell’atto mi spaventarono abbastanza, nel complesso mi sembrava una tagliola, una minaccia per chiunque». Compresi i consiglieri «in buona fede», convinti che rispettare la delibera significasse stare in linea con la legge. Per questo Paolo Maninchedda, passato durante la legislatura Soru anche nel gruppo misto, si era guardato bene dall’entrare nel grande giro dei rimborsi: «Io non maneggio soldi pubblici - ha detto e ripetuto ieri davanti al tribunale, chiamato come testimone dall’accusa - e non ho mai incassato un euro dei fondi dei gruppi di cui ho fatto parte». Una scelta che l’ha tenuto alla larga da conseguenze giudiziarie, quasi una mosca bianca in un’assemblea di onorevoli che a leggere le carte d’accusa del processo e la sentenza del giudice Cristina Ornano nell’abbreviato per Adraino Salis, usavano i soldi pubblici come fossero un’indennità aggiuntiva: «Io ho sempre saputo - ha detto l’attuale assessore regionale ai lavori pubblici, rispondendo alle domande del pm Marco Cocco – che quei fondi erano destinati all’attività del gruppo, non dei singoli consiglieri. Quindi la mia attività politica sul territorio la finanziavo di tasca, con l’indennità di consigliere». Il pm Cocco ha insistito sul tema della consapevolezza, sulla possibilità che ciascun consigliere aveva di valutare la legittimità delle spese compiute con quei soldi: «Ricordo che la delibera del 1993 aveva otto punti - ha spiegato ancora Maninchedda - uno di questi prevedeva il rimborso per attività da svolgere, una contraddizione in termini». Quindi neppure un euro in tasca, ma gli altri? «So che altri si comportavano diversamente - ha ammesso Maninchedda - tranne Peppino Balia, col quale parlammo più volte del problema. Ci trovammo d’accordo, quei soldi non dovevano essere spesi per scopi privati». Mentre la maggior parte degli onorevoli colleghi incassava con disinvoltura la «quota individuale» - 2500 euro al mese - in cui veniva frazionato il fondo del consiglio per il gruppo e spendeva liberamente con assegni, carte di credito, rimborsi in contanti, senza badare all’obbligo stabilito con chiarezza dalla legge di rendicontare ogni uscita, giustificandola con fatture, scontrini e pezze d’appoggio. (m.l)

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