La Nuova Sardegna

Lacrime e rabbia: il dolore di una città

di Angelo Mavuli
Lacrime e rabbia: il dolore di una città

Migliaia al Rosario davanti alle tre bare della famiglia Azzena

21 maggio 2014
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TEMPIO. Una città pietrificata ha accolto ieri pomeriggio le salme di Giovanni Azzena, della moglie Giulia e del piccolo Pietro. A infrangere il silenzio solo le urla di disperazione dei familiari delle tre vittime.

Uno strazio a cui ha voluto partecipare tutta la comunità. Quando i tre carri funebri da Sassari arrivano di fronte alla chiesa del Rosario, trasformata per l’occasione dal parroco don Antonio Tamponi in una grande camera ardente, il dolore e le disperazione invadono piazza San Pietro. L’antica chiesa che mai, a memoria d’uomo, ha ospitato, fra le sue sacre mura, vittime di un così orrendo delitto, però, si è rivelata ben presto troppo piccola per contenere una folla, che già numerosa all’arrivo delle bare, è andata via via crescendo per l’intera serata, fino alle 20, quando la cattedrale è stata chiusa.

La camera ardente riaprirà oggi dalle 10 alle 15, quando le bare verranno trasportate solennemente nella chiesa cattedrale per i funerali.

L’arrivo delle salme. Il corteo dei tre carri funebri arriva in piazza San Pietro poco dopo le 17.30. Sul sagrato, ad attendere la bare, tanta gente e tantissimi bambini che, poco prima, avevano assistito in cattedrale a una cerimonia in onore delle reliquie di Sant’Antonio da Padova, durante la quale erano state mostrate immagini e diapositive di Pietro con il vestito da chierichetto. Il corteo è aperto dal carro funebre che trasporta il feretro di Giovanni, il capofamiglia, subito dopo arriva quello con la bara bianca del piccolo Pietro e a chiudere, quasi a proteggerlo, quello con la bara della mamma Giulia. Ad attenderli, sui gradini della chiesa del Rosario, il parroco e i suoi due vice, fra i primi, sabato notte, a precipitarsi increduli, sul luogo del delitto.

Lo strazio dei parenti. Sulla piazza il silenzio viene interrotto soltanto dai singhiozzi sempre più forti di Antonella Zanzani, che a mezza voce chiama alternativamente sua sorella Giulia e quel nipote adorato «che le regalava – come aveva confidato sabato, subito dopo la scoperta del triplice omicidio e nell’attesa angosciosa di capire cosa fosse successo – fine settimana bellissimi fatti di allegria, di gioia di sorrisi di piccole attenzioni». Ed è proprio la bara bianca di Pietro, non ancora estratta dal carro funebre, che la donna abbraccia con forza, urlando il suo nome. Accanto a lei arrivano la sua anziana madre, Giovanna, e quella di Giovanni, Pasqualina, le due nonne di Pietro.

Le due nonne. Le tre donne si abbracciano forte, come a sorreggersi l’un l’altra. Nella piazza, molti piangono, altri hanno gli occhi lucidi, i bambini si stringono forte ai genitori. L’atrocità di quanto accaduto sabato, oggetto in questi giorni di mille parole, di mille discorsi di mille e anche inutili supposizioni, in questi momenti prende quasi la forma fisica di un dolore che penetra sin nel profondo e annichilisce ogni forza. La consapevolezza dell’orrore rasenta, quasi, la disperazione per l’impotenza che si prova, viene voglia di gridare basta, per un dolore sempre più forte e insopportabile che spacca la mente, l’anima e il cuore.

La camera ardente. Nella chiesa del Rosario entra per prima la bara di Giovanni, subito dopo, trasportata dai sacerdoti, il feretro bianco del piccolo Pietro. Quando la bara viene issata sulle spalle, la gente applaude con forza e piange ancora. I feretri allineati vengono collocati di fronte all’altare. Al centro quello del bambino, ai lati, mute sentinelle, “svilite” brutalmente della loro missione di protettori del figlio, da una furia omicida e da una crudeltà senza confini, le bare di Giovanni e Giulia sulle quali i parenti per primi, dignitosissimi e ammirevoli nel loro immenso dolore, piangono a lungo.

L’omaggio dei bambini. È la volta poi dei bambini, dei compagni di Pietro che si soffermano a lungo di fronte alla bara. Tutti piangono, qualcuno, quasi incredulo si dispera, stringendosi forte le mani. Per i ragazzi, che sembra quasi vogliano penetrare con lo sguardo il coperchio della piccola bara, una terribile presa di coscienza, della cattiveria e della crudeltà cui l’uomo è capace di arrivare. Capiscono che lì dentro c’è il loro piccolo eroe, il fratello, l’amico sincero, il difensore più capace, il migliore, come il giorno prima avevano scritto a scuola, in una mattinata dedicata tutta a lui. Poi è stata la volta della gente, tantissima gente che ininterrottamente per l’intera serata è sfilata in lacrime di fronte alle tre bare.

La voglia di giustizia. All’esterno della chiesa, la gente commenta la tragica fine e si pone mille domande. Affamati di notizie, ma soprattutto di giustizia, i tempiesi, e non solo, chiedono ai cronisti se ci sono novità. Il nome del fermato non viene mai fatto, ma il pensiero e i discorsi, a lui fanno riferimento e alla «sua povera famiglia sfortunata», colpita anch’essa da una tragedia e da un dolore immenso difficile da sopportare. Non vi sono innocentisti o colpevolisti. Quello che si chiede è la certezza dei fatti. In tutti poi, è presente quella consapevolezza, dolorosissima, che qualcosa è cambiato per sempre nella città di granito.

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