La Nuova Sardegna

Per sempre Brando, il divo fragile e ribelle

di Fabio Canessa
Per sempre Brando, il divo fragile e ribelle

Il primo luglio del 2004 se ne andava il grande attore

01 luglio 2014
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Condizionati dal doppiaggio, la prima volta che si può godere pienamente della recitazione di un grande attore straniero, visionando un film in lingua originale, l'effetto è spesso un po' straniante. Il caso di Marlon Brando è uno dei più lampanti. La sua voce è decisamente meno vigorosa di quella a cui il pubblico italiano è stato abituato. Quasi stride con il personaggio, con l'immagine di sex symbol, virile, che ci ha consegnato il grande schermo. E la sua stessa vita privata (tantissime donne, tre mogli). In fondo la si può vedere come una delle tante contraddizioni che caratterizzano questa figura leggendaria, attore inarrivabile che ha segnato mezzo secolo di cinema. Era il primo luglio del 2004 quando si spegneva, ormai anziano, nella sua casa di Los Angeles, stroncato da una collasso polmonare. A dieci anni dalla morte Castelvecchi pubblica “Marlon Brando - Una tragedia americana”, in cui Goffredo Fofi racconta l'attore attraverso tutti i personaggi che ha interpretato. Dall'invenzione di un nuovo modello maschile misto di violenza e di fragilità, all'imposizione dello stile di recitazione che diventerà modello per gli attori della nuova Hollywood, passando per le cadute e le rinascite di un’esistenza sopra le righe. La parte principale del libro è costituita da schede dettagliate e ragionate della filmografia di Brando: da “Uomini - Il mio corpo ti appartiene” del 1950 a “The Score”, la sua ultima apparizione, nel 2001. A preparare il lettore ci pensa un lungo prologo in cui Fofi racconta in parte anche l'America attraverso i personaggi interpretati e la vita stessa dell’attore. Una vita che sembra un film.

Gli esordi. Nato il 3 aprile del 1924 a Omaha, nello stato del Nebraska, mostra subito un carattere esuberante e litigioso e i rapporti con il padre non sono sempre facili. A 19 anni si trasferisce a New York dove si iscrive alla scuola d’arte drammatica del regista Erwin Piscator. Qui il primo incontro fondamentale per la sua carriera, quello con Stella Adler che comprende subito il talento dell’allora giovane Brando. Arriverà poi Elia Kazan e “Un tram che si chiama Desiderio”. Dapprima a teatro e poi al cinema Brando incanta nel ruolo di Stanley Kowalsky, protagonista del dramma scritto da Tennessee Williams. «Era come dirigere un animale geniale» dirà poi Kazan che lavorò con i tre grandi ribelli degli anni Cinquanta: Brando, Montgomery Clift e James Dean. Furono loro, sottolinea Fofi, a dare alla nuova generazione, in rottura con quella precedente, «un volto e una psicologia, modi d’atteggiarsi e muoversi, di vestire e parlare». Soprattutto con il personaggio del motociclista nel film del 1953 “Il selvaggio”, Brando impone un modello: il giubbetto di pelle, i jeans, le t-shirt, la pettinatura vengono subito adottate dalle nuove generazioni.

Gli Oscar. L’anno dopo esce “Fronte del porto” e Brando, già nominato per le interpretazioni in “Viva Zapata!” e “Giulio Cesare”, vince l’Oscar. Il secondo arriverà molti anni dopo, con “Il padrino” di Coppola. Quasi a mantenere fede alla sua fama di slob, di eccentrico, manderà a ritirarlo una giovane indiana. La causa dei nativi americani fu una di quele che Brando portò avanti con più convinzione nel suo confuso impegno politico, insieme a quella degli afroamericani (fu amico di Martin Luther King). Nel lungo periodo tra i due Oscar, una ventina d’anni, prende parte a diversi film: alcuni non troppo riusciti, altri da dimenticare, altri ancora sottovalutati come “Riflessi in un occhio d’oro” di John Huston nel quale Brando offre una delle sue prove migliori (tra le preferite da Fofi), e gira anche il suo unico film da regista: “I due volti della vendetta”. Bellissimo, ma maledetto. Fu infatti un insuccesso «e Brando - evidenzia Fofi - non era certo così coraggioso nelle sue rotture fino al punto di rischiare fortuna e sicurezza economica». Una delle tante contraddizioni di questo geniale artista che vengono fuori dal ritratto di Fofi che ovviamente riporta anche dei virgolettati della mitica intervista a Brando di Truman Capote. Non tornò più dietro la macchina da presa, ma con il suo carisma modificò spesso i film a cui prese parte, dando vita a personaggi memorabili come il colonnello Kurtz in “Apocalypse Now”, ancora con Coppola, o Paul in “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci.

Brando e l’Italia. L’esperienza con il regista emiliano non fu l’unico contatto di Brando con il cinema italiano. Qualche anno prima era stato diretto da Pontecorvo in “Queimada”, sceneggiato da Franco Solinas, e ancora prima si era trovato a recitare con due icone italiane come Anna Magnani, in “Pelle di serpente” di Lumet, e Sophia Loren nell’ultimo film diretto da Chaplin: “La contessa di Hong Kong”. Con entrambe, riporta Fofi, il rapporto non fu idilliaco. Se con la prima ci furono espressi dissapori, della seconda odiava l’eccessivo protagonismo. Nell’ultima parte della sua carriera, ingrassato e quasi irriconoscibile, finì per “prostituire” il suo talento in film spesso di poco conto. I soldi erano una più che valida motivazione. Anche necessari per mantenere la famiglia, piuttosto allargata. E dal punto di vista privato la vita ha presentato a Brando un conto salato. Il dolore di una figlia suicida e di un figlio omicida gli episodi noti che segnarono la sfera personale dell’attore. Un gigante fragile, ambiguo che resterà per sempre l’antidivo per eccellenza.

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