“Anime nere”, storie di Calabria
Il film diretto da Francesco Munzi, la migliore pellicola di Venezia 2014
Tre fratelli. Sono i protagonisti di “Anime nere” di Francesco Munzi, il miglior film italiano presentato alla Mostra del cinema di Venezia, peraltro meritevole di un premio che non c’è stato. Luigi e Rocco, calabresi, vivono a Milano; il primo organizza il traffico di droga verso la propria terra. Rocco, invece, è un imprenditore che si è “legalizzato”, probabilmente riciclando i soldi della criminalità. Ad Africo, ai piedi dell’Aspromonte, tra i resti del paese antico (Africo alto) e l’orrendo borgo non finito a due passi dal mare – dove però pascolano le capre – stanno invece madri, zie e sorelle, e pure il terzo fratello, Luciano, silenzioso e introverso guaritore che sembra appartenere al mondo “magico” di Ernesto De Martino. Il figlio, Leo, un giovane che mitizza gli zii, non ha però cancellato dalla memoria le faide che hanno decimato la famiglia. Una sua bravata scatena la nuova guerra familiare, il cui finale – irraccontabile – è una citazione, ammessa dal regista, di un bel film di Abel Ferrara, “Fratelli”. Tratto da un romanzo di Gioacchino Criaco – da appuntare per le prossime letture – che ha poi collaborato alla sceneggiatura assieme al regista e a Fabrizio Ruggirello, il film sembra una scarnificazione dell’apparato tragico-spettacolare del Visconti di “La terra trema” e “Rocco e i suoi fratelli”. Ma l’adattamento della tragedia greca al presente, con i personaggi/attori che parlano nel loro dialetto, richiama però il De Seta di “In Calabria”, quasi una certificazione del fallimento della modernità. Insomma, il cupo reportage-finzionale di Munzi è un film antropologico che racconta una transizione infinita verso un mondo forse peggiore di quello che provocava le vecchie faide. Non c’è redenzione in “Anime nere”, ma non c’è neanche il folclorismo naturale e auto rappresentativo di “Gomorra”. Africo resta inviolabile e segreta, nonostante i suoi legami con le metropoli del mondo intero.