La Nuova Sardegna

Sottoproletari e periferie descritti con Masaccio e Bach

di SANTE MAURIZI
Sottoproletari e periferie descritti con Masaccio e Bach

Il regista: un intellettuale tra ossessioni personali e denuncia sociale Dalle sceneggiature per Fellini alle opere innovative e al successo nelle sale

31 ottobre 2015
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di SANTE MAURIZI

Pasolini profeta, corsaro, scandaloso, bulimico, martire. Nessun intellettuale, non solo italiano, è di così grande ingombro fra l’opera e il pubblico. Vale anche per il cinema? Pasolini gira il primo film, “Accattone”, a quarant’anni. «Hanno fatto parte della mia formazione in modo diretto registi come Chaplin e Dreyer» dichiarò in un’intervista. Da metà degli anni cinquanta aveva collaborato alla sceneggiatura di film di Soldati, Fellini, Bolognini. La delusione per come i suoi copioni diventavano film è parte minima della vocazione cinematografica: «Il fondo della mia psicologia è ossessivo, traumatico, e quindi adotto le più diverse forme espressive. Quasi varianti di questo fondo ossessivo». “Accattone” (1961) è il primo effetto sullo schermo di tale ossessione, ma i nomi di Chaplin o Dreyer poco assistono nel definire l’orizzonte estetico del neo-regista.

. Storia dell’arte e cinema. Una qualche idea di cinema c’era già in quell’aula dell’Università di Bologna nella quale il diciassettenne Pasolini restò folgorato dalle lezioni di storia dell’arte di Roberto Longhi. Le diapositive di affreschi di Masaccio proiettate dal critico snodavano “totali” e “dettagli” che diventavano cinema: «Ecco davanti ai nostri occhi passare l’Evoluzione delle forme, come un meraviglioso film critico, perfettamente escatologico». Il mondo sottoproletario di “Accattone” è lo stesso dei “Ragazzi di vita”, ma le inquadrature, le posture degli attori, la musica di Bach, rimandano a una rappresentazione del Sacro che ha in quel Masaccio svelato da Longhi la prima radice.

Il degrado e il sublime. L’accostamento fra il sublime artistico-religioso e il degrado umano e sociale fu la vera causa delle traversie giudiziarie del film, e una delle costanti della poetica dell’autore. Così sarà per “Mamma Roma” (1962), con le citazioni pittoriche di Andrea Del Sarto o Mantegna a contrappunto della topografia fisica e morale dei nuovi quartieri a est della capitale. Qui con maggiore consapevolezza tecnica, confermata dalla presenza di Anna Magnani e del Lamberto Maggiorani di “Ladri di biciclette”, come a dichiarare la serena baldanza nel misurarsi coi monumenti del neorealismo. Con “La ricotta”, episodio del “Ro.Go.Pa.G.” a più mani (1963) la baldanza diventa sfrontatezza nel mettere in scena non tanto la vicenda della comparsa Stracci che muore di indigestione appeso alla croce (ancora l’alto e il basso, Pontormo e il sottobosco del cinema romano come metafora della volgarità contemporanea), quanto se stesso nei panni del regista interpretato da Orson Welles.

Società dei consumi. Doppiato da un bravissimo Giorgio Bassani, Welles legge una poesia di Pasolini e riassume in una frase il pensiero del regista sulla società italiana: «Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa». È una freschezza che Pasolini non troverà più, nemmeno nella “Trilogia della vita” che all’inizio degli anni ’70 trae dalla novellistica classica con grande successo commerciale, troppo preso dalla volontà programmatica di cantare la gioia del vivere e della carnalità. Con “Il vangelo secondo Matteo” (1964) strappa la vicenda di Gesù all’oleografia, ma pensando al seguente “Uccellacci e uccellini” (1966) si coglie meglio la distanza che ci separa dal regista e da quell’Italia. Non è possibile vedere il “Vangelo” prescindendo dell’impatto che ebbe il contemporaneo Concilio. Così come l’esercizio intellettualistico di “Uccellacci e uccellini” appare incomprensibile se non si conosce il travaglio del Pci dopo la morte di Togliatti. Entrambe le chiese, cattolica e comunista, incapaci per Pasolini di contrapporsi al vero potere, quello della civiltà dei consumi che ha snaturato la bellezza dell’Italia pre-industriale. Lo stesso spaesamento, al massimo grado, prende oggi nel vedere “Salò o le 120 giornate di Sodoma”.

L’incubo della violenza. La fine tragica del regista, le vicende giudiziarie e complottarde legate all’omicidio e al film, oscurano le ragioni della gelida messa in scena della brutalità, metafora di una mercificazione dei corpi che non è quella di De Sade o del nazifascismo, ma è il vissuto dello spettatore. Spinto oltre il sopportabile a prendere coscienza dell’incubo sociale di cui è vittima e complice. Non fosse per quella morte tragica di quarant’anni fa, non guarderemmo “Salò” come a un testamento.

Una disperata vitalità. Potremmo con leggerezza scegliere la messa in scena dell’Otello in un teatrino popolare di “Che cosa sono le nuvole”, episodio di “Capriccio all’italiana” (1968). Dolente apologo affidato a Totò (Otello) e Ninetto Davoli (Jago), marionette linciate dagli spettatori che vorrebbero il lieto fine. Gettate in una discarica, vedono per la prima volta le nuvole e la "straziante, meravigliosa bellezza del creato". Sta in questa battuta di Totò quella “disperata vitalità” che Pierpaolo Pasolini descrisse in una poesia-sceneggiatura in cui si figurava la propria morte.

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